Joe
Arriva in sala a più di un anno dal suo passaggio veneziano il film di David Gordon Green: un'opera solida, commossa, classica
David Gordon Green è un regista affetto da eclettismo instancabile. Un vero e proprio pendolo che sembra oscillare con la maggior naturalezza possibile tra il film scanzonato e irriverente e un cinema di taglio più calibrato e ricercato, dedito a una galleria di personaggi dal percorso psicologico e umano che sa e vuole essere anche sfaccettato, che fuori dalla commedia sboccata nutre l’urgenza di riscoprirsi ancora una volta distante dalla caratterizzazione basica e alimentare di strafattoni e simili (anche se poi magari finisce con l’inciampare di nuovo in un film ingenuamente mal riuscito come Manglehorn, in Concorso a Venezia 71). Due anime, commediante grossier da un lato e regista di sottigliezze dall’altro, che convivono in lui senza aver ancora dato luogo a una risoluzione univoca, a riprova di un contrasto tra i due poli che sembra non esserci affatto, per lo meno nella testa del regista e nel modo di concepire il suo cinema. Per Gordon Green, tutti i suoi film sono legati al massimo da un comune denominatore interno più che esteriore, connesso alle maestranze tecniche a lui fedeli, alle persone abituali e al conseguente clima lavorativo di cui ama circondarsi di film in film. Nient’altro, in apparenza.
Di conseguenza, mentre la ricezione critica continua a sentirsi un po’ spiazzata e si affanna vanamente per appiccicargli addosso un’etichetta spendibile per tutte le stagioni, Gordon Green continua a macinare un film dietro l’altro con invidiabile prolificità. Per il momento, sulla sua filmografia rimane impressa a chiare lettere l’impronta riconoscibile di un autore indie di grande classe e dal talento purissimo, che prima del penultimo Prince Avalanche sembrava aver smarrito la via maestra e invece è ancora lì, pronto a stupire e a rinverdire i fasti dei suoi bellissimi George Washington, Undertow e Snow Angels. Almeno Joe, in tal senso, rappresentata una strigliata e una virata in positivo non indifferente, anche più del film premiato a Berlino con l’Orso d’Argento per la miglior regia. Un film davvero maturo e coinvolgente, in cui si respira l’aria del miglior cinema americano da Sundance su più larga scala, che segna il definitivo passaggio del regista dall’eccentricità degli esordi a una più solida coesione, sia dal punto di vista drammaturgico che da quello dell’equilibrio generale. Ambientato in un paesino del Texas fisicamente molto vicino ai luoghi biografici reali in cui vive e bazzica Gordon Green, il film racconta del tentativo del truffatore ed ex-carcerato Joe Ransom di ricostruirsi una vita onesta oltrepassando gli errori del passato. Il ruolo di datore di lavoro sembra nobilitarlo, ma Joe non ha ancora fatto i conti con tutti i demoni che gli gravano addosso, che lo tallonano e sembrano non volergli lasciare scampo. Continua a bere, frequenta abitualmente prostitute, non riesce a tenere a freno una rabbia che sa impossessarsi di lui in un batter d’occhio e trascinarlo verso spiacevoli comportamenti alquanto estremisti e borderline.
Sarebbe un looser tormentato dai propri scheletri nell’armadio, il Joe di un Nicolas Cage ritrovatosi interprete di razza, ma le cose sono un po’ più complesse di quanto quest’espressione potrebbe didascalicamente suggerire. Joe è infatti incamminato su un sentiero di difficile redenzione personale che di sicuro non può essere dimentico delle ferite non rimarginate e dei drammi vissuti in precedenza ma mai espiati per davvero. La volontà c’è, ma essa non può non essere scalfita dalla titubante dubbiosità nei riguardi del proprio destino, dalla sensazione spiacevole di essere uno di quei perdenti sopraffatti dalla massa indiscriminata e caotica degli eventi e che la vita ha condannato definitivamente a rimanere tali. La forza cristallina e dirompente dell’interpretazione di Cage sta nell’assorbire tutto ciò come una spugna e nel restituirlo in un colpo solo, nell’interiorizzazione continua e totale dei sentimenti del personaggio, nel modo in cui l’attore lascia che le emozioni esplodano prima dentro di sé che esternamente: ne viene fuori un ruolo che sa andare oltre gli oggettivi limiti mimici dell’attore di Arizona junior, portandolo a recitare con le viscere e con l’istinto ancor prima che con la testa.
A parlare sopra ogni altra cosa sono gli occhi di Joe, vale a dire gli occhi azzurri e ingrigiti di Cage, che qui non si concedono quasi mai dei lampi solari, che sono consapevoli di vivere e brillare opacamente nel sottopancia più remoto e dimenticato dell’America periferica e vulnerabile, quella che non conosce l’esercizio dell’egemonia spaccona e ha ancora bisogno di guide e padri putativi. Proprio come ne necessita da morire il giovane protagonista Gary Jones (l’eccezionale Ty Sheridan di The Tree of Life), famiglia degradata e padre ubriacone e assassino, maturato troppo in fretta ma non per questo meno bisognoso di una guida morale: la troverà proprio in Joe, lontano dalla perfezione proprio come lo sono il passato e il presente del ragazzo ma disposto in fondo a migliorare, a imparare progressivamente a sporcarsi le mani anche per le sciocchezze e a reagire perfino con stoica imperturbabilità alle situazioni nelle quali in passato avrebbe spaccato una bottiglia in testa a qualcuno come nei vecchi regolamenti di conti dei saloon (“Vuoi spararmi? Puoi farlo!”, arriva a urlare a un poliziotto ostinato che non vuole lasciarsi persuadere dalla sua innocenza in una situazione banalissima).
Tratto da un romanzo di Larry Brown, Joe è un film granitico come la roccia, intimamente eastwoodiano nel suo attaccamento a un mondo imperfetto. Un’opera che obbedisce alle leggi e alle ambientazioni archetipiche di un western sui generis epurato dai contrassegni tipici del genere ma riempito dallo stesso attaccamento al codice d’onore e dal medesimo, nostalgico senso di struggimento. Joe è un canto rurale rispettoso dei vecchi valori, una ballata di ombre più che di luce che riesce a guardare ottimisticamente attraverso gli spiragli migliori, quelli dai quali filtra più speranza e le nubi all’orizzonte sembrano diradarsi. E in un universo ridotto ma iperviolento, in cui anche i cani si sbranano (solo?) per uccidere, è una conquista che sa di vittoria.