A Ciambra
Jonas Carpignano continua, con abilità ed empatia, la sua penetrante esplorazione del reale attraverso l’occhio attento della macchina da presa
Vincitore del Premio Europa Cinema Label a Cannes 2017, A Ciambra è il secondo lungometraggio dell’italo-statunitense Jonas Carpignano, di cui abbiamo già scritto sulle pagine di Point Blank a proposito del riuscito e apprezzato Mediterranea. Stavolta il regista può vantare la collaborazione del grande Martin Scorsese che, affascinato dal progetto, ha deciso di partecipare in qualità di produttore esecutivo. Tuttavia tanto l’approccio registico quanto la materia del racconto e l’ambientazione restano praticamente immutati; la macchina da presa si sposta però dal viso di Ayiva (Koudous Seihon) – del quale abbiamo conosciuto la storia nel precedente Mediterranea - a quello, più ombroso, del suo giovane amico Pio (Pio Amato), quattordicenne rom che, dopo l’arresto del fratello e del padre, si ritrova addosso d’improvviso tutto il carico di dover “portare a casa il pane” barcamenandosi tra mafia, polizia e furti finiti male.
Carpignano osserva senza giudicare, non assolve e non condanna: è empatico, perfino affettuoso con i suoi protagonisti che, in fondo, non fanno che mettere in scena se stessi, muovendosi nei luoghi che realmente abitano, periferie degradate e tendopoli desolanti che si stringono attorno a loro come una morsa, cancellando perfino l’idea di una qualsiasi possibilità di cambiamento. Il suo è, come nel precedente film, uno sguardo profondamente umano, che si confonde e si fonde con quello dei personaggi stessi. Ma che è anche capace, quando è necessario, di distanziarsi, per inquadrare in campo lungo la verità nuda e cruda, che non è bella né consolatoria, non è poetica né romantica. E’ sporca, è scomoda, e a qualcuno farà venir voglia di girare gli occhi da qualche altra parte, perché non offre soluzioni.
La freschezza e la forza di Carpignano, del resto, iniziano proprio da qui: dalla scelta di rifiutare a priori l’idea di un film-tesi, dalla volontà di mettere la macchina da presa a servizio del reale e non viceversa. Perché, se la sceneggiatura esiste, se esiste una “storia”, questa si origina e si risolve tutta nella descrizione di un quotidiano possibile, assieme vitalistico e disperante, e anche quando il regista si concede qualche apertura al visionario – il cavallo, simbolo di un altro tempo, che vediamo nell’incipit e che poi cammina indisturbato per le strade della Ciambra – resta sempre profondamente ancorato alla realtà. Del resto, proprio l’immagine incongrua ed evocativa del cavallo – elemento alieno e misterioso - è l’unico precipitato di un potenziale altrove e lo è proprio in quanto oggetto onirico, dal momento che il reale, di contro, non sembra disposto a concedere nulla in questo senso. E’ appunto nella sua apparizione che si coagulano le sensazioni e i presentimenti incerti che suggeriscono a Pio che qualcosa d’altro è (o è stato) possibile. Ma dove? Oramai solo nel sogno appunto, quello di un tempo che è leggenda e ricordo, il tempo di suo nonno, che è nato sopra un carro quando si viveva “sempre per strada, liberi e senza padroni”. Quando, come mostrato in apertura, attorno all’uomo e al cavallo c’erano solo cielo e terra: spazio infinito, aria e nuvole, un mondo di limpidezza e silenzio. Lontanissimo dai vicoli sporchi, dalle baracche anguste, dai palazzoni cadenti, dalla miseria tutta tristemente urbana del presente.
Con questo bellissimo racconto di formazione, Carpignano riconferma insomma appieno le sue doti registiche: la capacità di abbracciare nello stesso orizzonte il taglio socio-antropologico e il gusto per la narrazione che non esclude il pathos; la predilezione per l’asciuttezza e il rigore del linguaggio e soprattutto il rispetto per la descrizione del reale che diventa imperativo morale. Ed è esattamente di questo che il cinema italiano oggi ha bisogno.