La ragazza d’autunno
Due ritratti femminili vividi e incisivi sullo sfondo della Russia post-bellica: al suo secondo film Balagov conferma le doti già apprezzabili nell'esordio Tesnota, ma si rivela anche un formidabile artista del colore e della luce
Classe 1991, il russo Kantemir Balagov con due soli lungometraggi si è già aggiudicato due premi FIPRESCI, rispettivamente a Cannes 2017 con l’esordio Tesnota e a Cannes 2019 con La ragazza d’autunno, premiato qui anche per la Miglior Regia - sezione Un Certain Regard e poi accolto con entusiasmo al Torino Film Festival 2019 (Premio Migliore attrice a entrambe le protagoniste Viktorija Mirošničenko e Vasilisa Perelygina).
Il lavoro di Balagov si presenta, fin qui, come indagine lucidissima fortemente e sapientemente ancorata alla storia e al presente, sviluppata all’interno di quadri socio-politici nitidamente delineati. Nel primo film la grande Storia – i conflitti etnici del Caucaso Settentrionale – filtra attraverso le vicende del singolo, con il racconto del rapimento di una giovane coppia ebrea a Nal'čik (città d’origine del regista). Nel secondo, ambientato negli anni Cinquanta a Leningrado, Balagov restituisce due ritratti femminili vividi e complessi, che si fanno efficacemente emblema di una realtà più ampia soprattutto nel momento in cui vengono messe in evidenza le difficoltà e gli svantaggi, angosciosi e drammatici, peculiari della condizione femminile in un panorama già desolante e devastato come quello della Russia post-bellica.
La protagonista Ija è una giovane donna psicologicamente sofferente per i traumi vissuti in guerra; lavora in un ospedale, dove si prende cura degli ex-combattenti. Il piccolo Pashka, che ama come un figlio, è la sua gioia, il motivo per guardare avanti oltre il grigiore e la freddezza di una quotidianità sconfortante. Ma Ija lo perderà proprio quando la sua amica Maša, madre del bambino, tornerà dal fronte a reclamarlo. A quel punto Maša, segnata come e più di Ija dalle ferite della guerra, nello spirito e soprattutto nel corpo, pretenderà dalla sua amica il figlio che lei non è più in grado di avere.
Nel delineare questo rapporto d’amicizia dai risvolti ambigui, dove a una certa rancorosa volontà di prevaricazione si intreccia, dall’altra parte, un bisogno d’amore che sfiora l’autoimmolazione, Balagov ha una sicurezza da maestro insolita per la sua giovane età. Mai didascalico, mai prevedibile, il regista fa passare attraverso piccoli dettagli – un gesto, un’azione ripetuta ossessivamente, l’espressione di un viso – tutta una serie di nevrosi, desideri inconfessati e sentimenti inespressi.
Notevole è poi il lavoro sul corpo della protagonista Ija (Viktoria Miroshnichenko): silenziosa, vulnerabile, capace solo di amore, è inadeguata al presente squallido e violento che la opprime, e questa sua inadeguatezza, questa sua non assimilabilità, si fa segno fisico di diversità attraverso quell’altezza spropositata (già nel titolo originale, “spilungona”) che rende la sua bellezza bizzarra agli occhi degli altri. Pallida, quasi esangue, Ija sembra voler rifiutare la femminilità - che tuttavia il suo corpo possiede – per proteggere se stessa, camuffandola in una gestualità insicura, che arriva fin quasi, a tratti, a una chiusura che è autistico ripiegamento nel sé, a una pietrificazione di sensi e sguardo generata, forse, dall’orrore del mondo.
Soprattutto, però, Balagov – che si è formato presso la scuola di cinema di Alexander Sokurov – è un artista del colore, qui all’opera con una tavolozza di verdi profondi e pastosi e di gialli luminescenti e trasparenti, per dare a ogni primo piano tridimensionalità e a ogni interno matericità e atmosfera, per far sentire l’odore della solitudine che satura le stanze e il freddo delle strade innevate. Penombre e colori debordanti, quasi acidi, sono insomma la Russia malandata e stremata di Ija e Maša; solo in un passaggio del film - che segna la momentanea uscita al di fuori del mondo ristretto delle protagoniste - nell’immensa, elegante villa del ricco Saša, la luce perde le sue note oro e giallastre per ripulirsi in un candore più latteo, quasi a cercare un segno cromatico per significare un’alterità (economica, sociale) che per le due donne è, in fondo, inarrivabile.
Designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani SNCCI, La ragazza d’autunno è un film profondo, intimo e assieme politico: una pagina di Storia e assieme una storia di disperazione e amore, dove il raffinato lavoro sulla forma restituisce corpo e peso alla sostanza del discorso.