Tiepide acque di primavera
Esce ora nelle nostre sale l'esordio al lungometraggio di Gu Xiaogang, primo capitolo di una trilogia che guarda alla tradizione pittorica cinese per addensarne la ricerca del dettaglio e la qualità esplorativa nella sua immagine cinematografica, e dotando quest'ultima della capacità trasformativa del tempo.
Tra le montagne di Fuchun, l’antica città di Fuyang si sta rapidamente trasformando in un conglomerato di alti edifici di cemento. Le vecchie case vengono demolite senza preoccupazione alcuna per le condizioni di chi le abita, mentre i plastici giganteschi delle agenzie immobiliari miniaturizzano orgogliosamente la nuova geografia semplificata e inaridita di quello storico paesaggio. Vivere questo cambiamento è difficile anche per i Gu, una delle tante famiglie di pescatori a soffrire per l’inquinamento delle acque di detriti e prodotti di scarico, che ora deve fare i conti anche con l’accentuata demenza senile della matriarca, all’alba del suo settantesimo compleanno. I quattro figli tentano ciascuno a modo proprio di restituire una normalità al trambusto, sollecitato ancor più dall’irresponsabilità del più piccolo, un truffaldino ludopatico, inaffidabile, ancorché trascinato verso sprazzi di buonsenso dall’amore per il figlio disabile e la madre.
Tiepide acque di primavera, esordio al lungometraggio di Gu Xiaogang, adotta una prospettiva da romanzo famigliare e la fissa entro lo spazio di un’immagine ampia che la contiene quasi in forma microscopica. I frequenti campi lunghi, di tanto in tanto i totali e i lunghissimi, inquadrano le aree boschive estese lungo le montagne o a ridosso del fiume: nel mezzo, rapiti nei lenti movimenti verticali della macchina o dalle carrellate orizzontali, troviamo i corpi dei personaggi, qualche volta così distanti da essere irrintracciabili. Come un quadro che abbia in sé la qualità dell’esplorazione, dell’immagine complessa da guardare attentamente per rintracciarvi tutte le sue parti, dalle più visibili alle invisibili. Ed è a questo tipo di quadro che guarda Xiaogang (per sua stessa ammissione in Eric Hynes, ‘Time is a character’. Interview: Gu Xiaogang, Film Comment, Luglio-Agosto, 2019), al dipinto di Zhang Zeduan Lungo il fiume durante la Festa di Qingming, del dodicesimo secolo. Il regista cinese si serve allora proprio di queste inquadrature, condite di movimenti lentissimi e allungandole nella durata. Le dota della qualità contemplativa dello Slow Cinema per ponderare non attorno all’immagine ma su di essa. Nel quadro di Zeduan il paesaggio della città e della natura attorno concede nella visione prolungata e attenta la “scoperta” dei corpi miniaturizzati, dipinti in piccolo mentre lavorano e si muovono nello spazio attorno. Tiepide acque si apre proprio alla duplice vista del quadro, quella d’insieme e quella del particolare.
Quest’immagine lenta (per sinestesia) si srotola per due ore e mezza attraverso le quattro stagioni. E qui lo srotolamento è il modo opportuno per definire l’assimilazione tra pittura e il cinema di Xiaogang. Il titolo originale del film, Dwelling in the Fuchun Mountains, è soprattutto il titolo di un altro grande dipinto a opera di Huang Gongwang (realizzato tra il 1348 e 1350). Siamo nel dominio della pittura cinese Shan shui, che vede la rappresentazione di paesaggi naturali su lunghe pergamene. Dispiegando la pergamena, il paesaggio si offre alla vista non nell’interezza immediata, ma lentamente, come un film; e le immagini del film assumono a loro volta la proprietà della pittura Shan shui, secondo questo stesso srotolamento che l’autore ha voluto definire scroll montage. L’esperienza della durata, inevitabilmente, emerge dalle immagini con forza. La percezione alla vista è quella di immagini con la qualità trasformativa del tempo: le stagioni avanzano con lentezza, mutano i colori del paesaggio, irrigidiscono nel freddo del fiume e nella fatica la famiglia Gu (che vive su una barca), accompagnano il lungo incontro tra la figlia più piccola e l’uomo che vorrebbe sposare, mentre questi prende a nuotare risalendo tutto il fiume e si ricongiunge a lei per raccontare il suo amore per l’arte e per il fiume Fuchun, tutto in un denso piano-sequenza che è forse il momento più alto del film.
Momenti trasformativi, questi, perché alla fine di ogni inquadratura nessuno resta davvero il sé stesso di prima: la giovane nipote impara a non rinunciare all’amore per sottostare a rapporti combinati, la nonna si avvicina un passo di più alla morte, il figlio truffatore si sforza di ripagare la sua mole di debiti e impiegare tutto sé stesso per le cure della madre. La Cina, poi, soprattutto la Cina, cambia la sua fisionomia, come quella buttata giù dalle dighe gigantesche di Still Life (Zhangke è un confronto obbligatorio), ma pure quella di Bi Gan (Kaili Blues) e Hu Bo (An elephant sitting still), chiamati in causa, con lo stesso Xiaogang, da Jacques Rancière in riferimento proprio a una riflessione sulla percezione del presente, il loro saper dire qualcosa “in forma palpabile, a proposito del tempo, della memoria o delle amnesie della Cina contemporanea” (Mathieu Dejean & Jean-Marc Lalanne, Jacques Rancière : ‘L’enjeu est de parvenir à maintenir du dissensus’, Les Inrockuptibles, 15 febbraio 2021). E alla fine di tutto, dopo tutto questo camminare, quando è giunto anche il momento del lutto, quando alla famiglia tocca restar vicina (al padre conoscere il genero amato dalla figlia, e a madre e figlia ritrovarsi dopo i dissapori), guardare la montagna che si allunga dietro di sé nella discesa, e tenere poi gli occhi chiusi, come fa il figlio truffatore, davvero sa di una paralisi, di una pausa dall’avanzamento del tempo, nella forma più audace, più sincera possibile.