Mariner of the mountains

di Karim Aïnouz

Aïnouz cerca di inquadrare di nuovo la vita invisibile di un'identità: questa volta la propria, divisa tra Brasile e Algeria, padre e madre, memoria e rimosso, passato e presente.

Mariner of the mountains - recensione film ainouz

In tempi in cui l’universo parallelo è la forma di racconto che permette all’economico di espandersi a piacimento nell’audiovisivo, sfruttando la logica esponenziale delle possibilità alternative per generare mondi di immagini in cui tutto sempre si tiene e nulla si perde, il concetto stesso di alternativa ha forse perso la sua carica eversiva e distruttrice, la sua natura di radicale opzione, sempre responsabile di un annullamento. Non sono molti i film che, da qualsiasi coordinata dell’orizzonte digitale, pensano al rapporto tra possibilità e immagine, cinema e realtà alternativa, nella mediazione di questo annullamento: se qualcosa si dà come immagine, qualcosa l’immagine lascia indietro e questo qualcosa si fa presto rimosso che può essere ignorato o rimesso in gioco come quoziente invisibile. Il cinema per Karim Aïnouz, regista brasiliano navigante a vista tra le forme della finzione e del documentario, rimette in scena questo rimosso virtuale che è l’alternativa possibile, l’alternativa radicale, la scelta che non si è compiuta e ha prodotto un destino piuttosto che un altro. Se la cosa era evidente ne La vita invisibile di Eurdice Gusmão – melodramma di destini non percorsi e vite non vissute, rimaste immagini inespresse capaci di infestare come spettri le stanze del cuore – lo è ancora di più in Mariner of the mountains, piccolo documentario sperimentale, diario per immagini in cui il regista cerca di inquadrare l’invisibile alternativa di altre vite: la sua, brasiliano d’origine algerina vissuto lontano dalla conoscenza delle proprie radici, e quella dei suoi genitori, una madre e un padre allontanati dai rovesci della storia e dalla logica della geografia. 

Aïnouz “viaggia per imparare a vedere” la forma dell'identità non realizzata; parte dal Brasile, la terra della sua felicità, della sua vita, della sua esistenza certa, per arrivare in Algeria, la terra di discendenza che non conosce, la terra dell’altra vita, la terra dell’altrimenti. Il viaggio oceanico a cui si affida però disdegna la genealogia, si fa subito labirinto senza segnaletica che apre l’abisso dei ricordi e delle possibilità procedendo in due direzioni: all’indietro, seguendo un cordone che porta verso il ventre materno – immagini d’archivio, filmini casalinghi e fotografie animate dalla memoria raccontano la storia famigliare del regista –, e in avanti, nel presente delle timide montagne algerine, alla ricerca del volto di un padre che si è poco conosciuto e troppo tardi. A sorpresa, gli universi possibili non germinano solo nel presente, ma fioriscono dal passato e dissestano le certezze: così, mentre Aïnouz esplora il suo paese d’origine per comprendere ciò che poteva essere se fosse rimasto nella terra del padre, cercando un’alternativa di sé, un alter ego possibile che lo metta di fronte al peso fisico delle scelte che non ha preso ma l’hanno formato, scopre che l’identità “brasiliana” che credeva ben salda, quella proveniente dalla crescita con la madre (a cui indirizza le confessioni, in forma di lettera ad alta voce – ribaltando con genio un’idea rubata a Chantal Akerman) non è per niente salda, ma è piuttosto un altro punto di fuga che lo precede, del tutto simile a quello che si trova di fronte. 

Nei volti algerini che inquadra con grande ritegno, il regista brasiliano trova le tracce del padre ma anche della madre, in una combinazione d’affetto che lo porta a riconfigurare i propri connotati esistenziali: come già per i personaggi de La vita invisibile, l’identità del regista si confida assediata dalle possibilità che la eccedono, dal passato che la sommerge e dal presente che le sfugge dalle mani, e si rivela incapace di pacificare una rottura troppo spinta in fondo al tempo e allo spazio. La lucidità del film sta in questo passaggio: l’identità fallisce, non riesce a tenere insieme ciò che il mondo si sforza di separare, e per questo non merita alcuna mozione di fiducia. Piuttosto, la sottoscrizione della propria fede deve andare e va al cinema, perché il cinema può riuscire dove l’identità capitola: nelle immagini, e solo nelle immagini, quanto spezzato si ricompone, ciò che si è rotto trova soluzione, la memoria trova abitazione e l’affetto una forma che non sia il fantasma. Non però alla maniera di un ricettacolo in cui tutto si tiene allo stesso modo, secondo un livellamento continuo; piuttosto nella misura di un sogno, o di un miraggio (sarebbe questa la calentura, sulla cui definizione si apre il film), che lascia intravedere dentro di sé sia le esistenze alternative, forme di fantascienza privata – e dentro a questo documentario compare non a caso una bozza di film sci-fi – sia la loro implacabile negazione da parte dello sferzante risuonare della realtà. Nel placido turbinio prodotto dal continuo frangersi delle immagini d’archivio nella scomposta corrente digitale delle immagini del presente, risuona così il darsi e il negarsi di quegli universi paralleli che non possono essere colonizzati e che accolgono solo chi decide di naufragare in essi. 

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 09/06/2022
Brasile 2021
Regia: Karim Aïnouz
Durata: 105 minuti

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