Cloud

di Kiyoshi Kurosawa

In continuità con l’evoluzione del suo cinema, Kurosawa si serve ora degli spazi culturalmente marginali del Giappone per portare alla luce disagi e crisi sotterranee che attraversano, inesorabilmente, il tessuto sociale della nazione.

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Il paradigma su cui si è fondata l'espressione poetica di Kiyoshi Kurosawa ha subito una variazione enorme nel corso dell'ultima decade, soprattutto dall’uscita di Real (2013). Se il cineasta giapponese tendeva a codificare l'Apocalisse, la necessità cioè di sovrapporre la demolizione del mondo interiore di un individuo all'annichilimento dello spazio circostante, per poi portare i protagonisti a rivoluzionare il proprio sistema di valori in linea con le logiche della nuova realtà post-apocalittica, adesso la dimensione in cui si muovono i personaggi/cittadini non implode più. Proprio perché l'allegoria, una volta che il Giappone si è progressivamente allontanato dalle crisi del periodo post-bolla (1991-2001, con alcuni analisti che lo estendono anche alla decade successiva) ha perso le sue connotazioni sociologiche: e dal momento che l'orizzonte spaziale del suo cinema non può più innervarsi di istanze “trascendenti”, ecco che il regista ha iniziato a spostare l'azione nei territori extra-capitale; gli unici, a detta di Kurosawa, capaci di trasmigrare le crisi dei protagonisti – e di conseguenza i codici della sua poetica cinematografica – in luoghi-altri, senza per questo privarli della carica metaforica di cui si sono sempre fatti portavoce sin dagli albori della sua filmografia. Uno spettro in cui Cloud, da qualunque prospettiva lo si osservi, si iscrive pienamente.

Il nuovo lungometraggio di Kurosawa, presentato Fuori Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, ramifica la narrazione – guarda caso – a partire da uno spostamento, che in piena continuità con le logiche pregresse del suo cinema determina la rivoluzione (o involuzione?) interiore del protagonista, qui declinata in spazi meno diabolici e soffocanti di quelli su cui si fonda la megalopoli di Tokyo. Se però in Cure (1997) Charisma (1999) o Barren Illusion (1999) la ricerca di una fuga dalla capitale equivale all'implosione personale e collettiva di coloro che la abitano, proprio perché ai tempi della Lost Decade i “fantasmi” del Giappone non potevano astrarsi dagli spazi materici di una città dominata dalla desolazione, ora in Cloud – ma potremmo dire, da Real e soprattutto, da Journey to the Shore (2015) – la distanza temporale dall'esplosione della bolla finanziaria permette ai protagonisti di abbandonare le soglie di Tokyo, e riversare esteriormente le proprie crisi in ambienti più periferici e meno urbani, segni e metafore di un mondo che nonostante le fratture del recente passato continua a sfuggire alla comprensione dell'individuo: specialmente quando si innerva di schegge di violenza impazzite, come nel caso di Cloud.

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Come altre anime desolate di questo cinema, il protagonista Yoshii (Masaki Suda) si approccia alla realtà in maniera distaccata, quasi dissonante, come se i rapporti con l'esterno – e forse, con sé stesso – fossero percepiti come anomalie da respingere attraverso un distaccamento emotivo abissale. Un fenomeno percepibile sia all'inizio del racconto, quando ancora lavora come dipendente di una fabbrica di Tokyo, sia nel momento in cui decide di licenziarsi, per rivendere in proprio delle merci dalla natura commerciale decisamente controversa. E nell'istante stesso in cui manifesta questo suo desiderio, forse per la prima volta nella sua “asettica” esistenza, ecco che il suo mondo è destinato a cambiare. Ma agli occhi di Kurosawa, si sa, la dissoluzione della realtà interna di un individuo deve passare, per forza di cose, dalla presentazione di uno spazio perturbante, anche quando, come nel caso di Cloud e dei suoi predecessori (si pensi a Seventh Code, Before We Vanish o a To the Ends of the Earth) “l'Apocalisse” viene declinata secondo metodologie meno soffocanti e nichiliste. Ecco allora che Yoshii, trasferitosi ora in un luogo di montagna lontano anni luce dal perimetro asfissiante della capitale, vede il suo mondo disgregarsi pezzo dopo pezzo, in una “discesa agli inferi” dal moto inarrestabile, in cui la violenza, e il portato simbolico che la contraddistingue, esercita un ruolo totalizzante: tanto da assumere non solo un'importanza “narrativa”, cioè funzionale allo sviluppo del racconto, ma anche - e soprattutto - sociologica.

Ed è proprio qui che Cloud mostra tutto il suo (enorme) spessore, drammaturgico e politico. Perché l'atto violento, il gesto con cui tutte le “vittime” delle truffe di Yoshii cercheranno di cancellare la sua esistenza – e quindi le tracce delle sue operazioni illecite – è, agli occhi di Kurosawa, il sintomo di un malessere che attecchisce in ogni strato della società giapponese, specialmente quello più periferico e culturalmente marginale. E ciò che restituisce radicalità al ragionamento del celebre cineasta è questa inesorabilità del male: la naturalezza con cui alcuni (o forse molti?) cittadini della nazione si profondono qui in atti di violenza improvvisi e apparentemente inspiegabili, proprio perché incapaci di metabolizzare le crisi di un paese in preda alla confusione, sia identitaria che deliberatamente politica. È così, allora, che l'ignaro protagonista di Cloud viene sì radicato in una realtà meno diabolica della vecchia Tokyo, ma il suo è uno spazio egualmente vacuo e “catalizzatore”. Tanto che la spirale di morte e sangue in cui si trova a muoversi nella seconda metà del racconto diventa appunto la genesi di un moto di rivoluzione interiore, dall'epilogo non necessariamente positivo o virtuoso. Perché se l'Apocalisse purifica il mondo e coloro che vi abitano, i “sopravvissuti” al disastro devono comunque trovare nella tabula rasa valoriale a cui sono destinati una formula con cui codificare un sistema di valori congruo alla “nuova realtà”, e posizionarlo al centro della propria redenzione o del “riscatto sociale” a cui, così ostinatamente, anelano. E l'immagine con la quale si conclude il film, con Yoshii che dopo aver trasceso l'inferno cerca di guardare oltre il mare di disperazione che gli si dipana davanti, appare come una potente dichiarazione d'intenti riguardo questo cinema e lo stato in cui versa il Giappone odierno. Quasi che Kurosawa ci dica come, anche davanti ai fenomeni più ineffabili e inconoscibili di cui si innerva il tessuto sociale nipponico, non smetterà mai di interrogare, attraverso le sue opere, le crisi sotterranee del paese in cui vive. Al punto che Cloud - sulla scia del precedente e folgorante Chime - sembra voler trasfigurare ogni inquadratura di cui si compone in una finestra “metaforica” da cui è possibile osservare i disagi (in)visibili in cui si sta inabissando la nazione. E che solo il cinema può portare alla luce.

Autore: Daniele D'Orsi
Pubblicato il 31/08/2024

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