Planet B
Non sempre tutto è a fuoco, ma questo action distopico a tema ambientalista sa dove guardare e, soprattutto, cosa dire, anche quando ammette, prima a sé stesso e poi a noi, che forse, prima che dell'ambiente, bisognerebbe occuparsi di certi soprusi e ambiguità del potere.
Il punto di partenza, anche e forse soprattutto inconscio, di Planet B è probabilmente poco conosciuto ma affascinante. Giusto un paio d'anni fa Daniel Goldhaber gira How To Blow Up A Pipeline, storia (tratta dall’omonimo saggio di Andreas Malm) di un gruppo di giovani ambientalisti male in arnese che decide di far saltare un oleodotto americano. È quasi una rivelazione silenziosa, che colpisce soprattutto per il modo in cui Goldhaber tratta l’ecologia, tema di fondo ma anche prassi linguistica. Ecologia dei segni, della scrittura, quindi, ridotti all'osso in un action che al di là delle imperfezioni si crede un heist movie fino in fondo e crede soprattutto nel suo immaginario, nella sua sintassi, nei suoi rituali, che alla lunga quasi si mangiano il tema di fondo, si, ma allo stesso tempo proteggono il film dal rischio di scadere nella vuota retorica.
Come a voler immaginare il linguaggio di un action a tema ecologista e lasciar intendere, forse, tra le righe, che si dà importanza all'ambientalismo ma forse a sedurre irrimediabilmente chi guarda è soprattutto il fascino avventuroso del racconto puro del "colpo".
Ecco Planet B. il film di Auede Lèa Rapin presentato all’ultima Settimana Della Critica è probabilmente il passo successivo a quanto già si intravede nel film di Goldhaber, il tentativo di rispondere e approfondire i discorsi attorno a domande che già emergevano tra quelle immagini: come si crea un intero mondo attorno a un’urgenza tematica così profonda; come si gestiscono un ritmo, un respiro, una serie di motivi ricorrenti, un modo di approcciarsi alla sintassi legandolo a uno spazio da "cinema di genere"? E forse la vicinanza tra i due film la tradisce anche questo atteggiamento quasi giocoso nei confronti del tema ambientalista. È da lì in effetti che si parte, è su di esso che si costruisce un racconto teso tra la sci-fi e l’avventura pura, che segue un gruppo di ambientalisti impegnato in azioni di guerriglia contro il governo in un futuro vicinissimo alla nostra contemporaneità, ma proprio all’apice dell’operazione su cui si chiude il prologo, apparente centro narrativo del film, improvvisamente scarta, lascia intendere che più che nel primo piano, nella ribellione pura, il vero interesse stia tutto nello sfondo.
A risaltare, nella fuga a perdifiato dalle autorità del protagonista non è quasi più, allora, il gesto politico ma il linguaggio, i marcatori di immaginario con cui questa corsa a perdifiato viene raccontata, tra il cinema della sorveglianza, le inquadrature termiche dai droni come in Watch Dogs e il ritmo da action movie fatto e finito, per quanto pensato per un budget contenuto. Da lì Planet B pare affascinato dalla sua capacità mitopoietica, a tal punto che a tratti pare attardarsi nel racconto della sua storia per costruire in modo certosino il suo mondo futuro sull’orlo del baratro climatico, puntellato di riferimenti futuristici a bassa fedeltà eppure tutti centratissimi, affascinato dai suoi neon, dai suoi meccanismi, dai suoi rituali, dalla sua mitologia, tutti elementi raccontati con cura al di là della loro importanza nello spazio narrativo.
C’è talmente tanta passione, nella creazione del terreno d’azione di Planet B che a tratti la questione ambientalista sembra perdersi e il film di Rapin pare divenire a tutti gli effetti una sorta di esercizio di stile in forma saggistica sulle possibilità del world building nel cinema di genere europeo.
Ma se facesse tutto parte del gioco?
Planet B: come in "There Is No Planet B", lo slogan ambientalista mantra dei Fridays For Future fin dal 2019, slogan che evidentemente riemerge anche sul finale del film, rabbiosamente urlato in faccia ad alcuni agenti del potere centrale da una dei protagonisti. Non c’è un secondo pianeta, o forse c’è ma, nella distopia del racconto è uno spazio governativo, è la prigione virtuale dove verranno trasportati e torturati i giovani guerriglieri dopo l’azione fallita che ha aperto il film, ironico ribaltamento di fronte di un film che pare soprattutto, più che una resa, un tentativo di mettere le cose in prospettiva. È un po’ come se Planet B si posizionasse oltre l’ambientalismo, ragionando più come un’operetta morale che come un testo dal retrogusto apocalittico. Perché in fondo è inutile pensare all’ambiente se i meccanismi del potere e del sopruso sono ancora attivi e aggressivi. Ecco allora che Planet B dà il meglio di sé quando diviene lucidissimo saggetto sulla pervasività degli strumenti del controllo, sul biopotere e sulle questioni morali che si creano in un gruppo di soggetti costretti in una situazione estrema come la prigionia e la tortura.
Sia chiaro, Auede Lèa Rapin non inventa in realtà nulla di davvero nuovo, rimastica in modo personale influenze distopiche note e fa emergere in primo piano un tema che probabilmente altri prima di lei hanno trattato con più chiarezza argomentativa. Eppure, malgrado un passo a tratti malfermo, la scrittura non perde comunque occasione di raccontare senza remore le ambiguità del nostro rapporto con il potere, di ragionare, forse soprattutto, su forme eminentemente contemporanee di controllo, che passano per la virtualità, per la creazione di un visivo influenzato dalla (post)verità modellata dai dati, per l’importanza di apparire, forse non a caso, invisibili in rete per organizzare le giuste strategie di contrattacco. E il passo del racconto non è mai davvero consolatorio, piuttosto la scrittura sembra costantemente cercare qualche dettaglio che pesi sul nostro petto, ci spiazzi, per quanto possibile, ci privi di vere e proprie vie di fuga.
Probabilmente, soprattutto sulla lunga distanza, Planet B rischia di apparire fuori fuoco, di rimanere sulla superficie delle cose, di presentarsi come un testo apodittico, ma il film di Auede Lèa Rapin è comunque uno dei pochi, cinici, racconti morali per il nostro presente liquido: perché richiama costantemente i nemici da combattere e perché, soprattutto, racconta senza filtri quanta strada ci sia ancora da fare nello spazio della biopolitica.