The Brutalist
Brady Corbet cerca di far esplodere il dibattito sul ruolo del cinema nella società contemporanea: costruisce un opus architettonico in Vistavision che catturi la luce e il buio, cercando di dare una risposta modernista ai problemi della postmodernità. Il risultato è forse fuori tempo massimo ma lancia un monito sui fascismi del nostro millennio.
The Brutalist inizia dove finiva Childhood of a Leader, nello stesso spazio di astrazione figurativa: l’abbattimento della scatola prospettica, il rovesciamento delle pareti del dramma in un vuoto panoramico senza coordinate. Nel film d’esordio Brady Corbet faceva vorticare la macchina da presa fuori da ogni asse per mettere il fascismo in figura: una distorsione delle linee di forza della messa in scena come segno della distorsione delle coordinate morali nella Storia dell’Occidente. In questo nuovo opus presentato alla Mostra del Cinema di Venezia (come è stato detto, tre ore, pellicola, Vistavision) invece, ecco un nuovo vortice a risalire dal buio, non più per intercettare una folla urlante in adorazione del capo, ma per mostrare lo squarcio di cielo da un antro oscuro, una mano tesa tra le nuvole a offrire una fiaccola, la Statua della Libertà. Però demonicamente ribaltata, come un angelo caduto. Da un lato ecco quindi l’esito fantapolitico del fascismo di Prescott il bastardo, infante rabbioso mal cresciuto in regime famigliare di austerità repressiva, allegoria dell’interventismo americano nella genetica della geopolitica europea; dall’altro l’incipit di finzione romanzesca del sogno di libertà László Tóth, architetto ungherese fuggito in America per il nazifascismo ma già consapevole dello spettrale razzismo della terra delle opportunità. Una fine e un inizio, due immagini differenti, fatte scorrere lungo un un’unica cerniera, un unico assunto teorico che avrebbe fatto felice il compianto Frederic Jameson: distopia e utopia sono facce della stessa immagine, o meglio, sono la stessa immagine. E questa immagine ha i connotati dell’America.
Oltre questa convinzione, in buona parte già evasa dalla teoria delle ideologie, Corbet aggiunge poco sul piano teorico. I suoi film (nati americani ma cresciuti europei e già identificabili come parte di un ambizioso progetto d’autore in critica con una nazione) si risolvono nell’intuizione che il mezzo cinema sia funzionale a mostrare l’ambiguità di questa stessa immagine, la sua natura dialettica, double fas. Non solo perché il cinema (almeno nella sua categoria produttiva di riferimento) è frutto di un plesso ideologico sospeso a metà tra ragioni di commissione industriale e creazione autoriale, al punto da rispecchiare omeopaticamente questa stessa ambiguità, ma anche perché il cinema come linguaggio redime questa ambiguità permettendo di abitarla. Di viverla cioè come un’esperienza fisica, tridimensionale, che si incontra con il corpo dei personaggi, all’altezza dei loro occhi. Drammi da camera sono tutti e tre i suoi film, in cui un trauma prende le forme di quattro pareti – ricordate il gabinetto decisionale con la mappa dell’Europa da ridisegnare nell’Infanzia di un capo, o la classe liceale della sparatoria iniziale di Vox Lux? – non tanto per ragioni meramente tematiche ma per una forte credenza formale, figurativa, nel cinema come linguaggio architetturale, che rimette in scena le interazioni tra individuo e società attraverso una manipolazione dello spazio fisico.
The Brutalist, film di conferma per Corbet sul piano delle performance autoriali all’interno del mercato festivaliero – premiato con il Leone per la Miglior Regia -, a questo proposito sembra non fare altro che allegorizzare le sue condizioni di produzione e le sue ragioni d’essere teoriche. Da un lato racconta la dialettica di interdipendenza tra un artista dell’Europa dell’est, appunto László, e un magnate americano (tale Harrison Lee Van Buren, ambizioso industriale) per la costruzione di un edificio a servizio della comunità, in uno scontro insistito tra le ragioni della forma e quelle dell’economia – fino a suggerire l’utilità interpretativa dei paratesti produttivi dietro al film, che raccontano le contrattazioni decennali per completare il progetto. Dall’altro si inventa un profilo alter ego, architetto della scuola brutalista del Bauhaus - e cioè di quella corrente che cercava una risposta ai quesiti della nascente società di massa senza però cedere ai ripieghi sottilmente reazionari di uno storicismo (il recupero delle forme vecchie per affrontare il disorientamento dei valori) incapace di costruire una nuova etica sociale attraverso l’estetica delle masse solide –, per trovare nella promessa di quel movimento modernista un posizionamento altro all’interno del dibattito sul ruolo del medium cinematografico in tempi postmodernisti.
Quale promessa? Quella dei teorici più ottimisti che, alle porte di una modernità massificata cercarono di spingere il pensiero dei loro contemporanei verso quest’ultimo versante per rivalutare gli impulsi della modernità e ribaltare così lo shock delle possibili alienazioni capitaliste in forme di vita sostenibile. Kracauer e Benjamin, per capirci, ma anche, più opportunamente, László (appunto) Moholy-Nagy: avanguardista ungherese del Bauhaus che per tutta la carriera cercò di cambiare il segno della luce, impulso elementale reso costitutivamente ambiguo dai nuovi tempi elettrici, da agente anestetizzante per la vita dei soggetti a referente di un’evoluzione cognitiva aperta alla riformulazione del capitale culturale. Oggetti miliari come il suo Light- Space Modulator, scultura di luce capace di organizzare la bidimensionalità inorganica in proiezioni tridimensionali da cui intravedere virtuali possibilità di esistenza alternative, stanno dietro ai disegni e alle concezioni di Tóth, e quindi di Corbet, che, nel momento in cui il cinema sembra perdere ruolo rispetto al dibattito pubblico, pensa al modernismo come forma di legittimazione del medium in senso sociale. Il regista pensa al suo film come un edificio – che include tra le sue stanze anche la sala, per esempio con un intervallo di un’quarto d’ora che con audacia strutturalista riproduce l’attesa del ritorno della moglie deportata di László.
Un edificio fatto per catturare la luce, o meglio, l’impulso luminoso che, nei suoi ombrosi ripiegamenti, è ancora correlativo fenomenologico delle ambiguità utopiche/distopiche della terra della modernità. Un edificio che è l’occasione per László/Corbet di districare dall’America una luce che organizzi politicamente l’estetica (ecco il comunismo della materia di cui l’architetto cerca invano di farsi promotore nei salotti borghesi di Van Buren) invece di estetizzare la politica. È questo per il regista, modernista doc che ragiona fuori tempo massimo sull’opera d’arte in tempo di riproducibilità tecnica, il fascismo contemporaneo: trasformare in spettacolo la propria autoalienazione, cancellando la possibilità di riscrivere i dislivelli di potere economico e sociale e conservare lo status quo. Un movimento che Corbet indica globalizzarsi dal razzismo degli Stati Uniti anni ’50 al sionismo dell’allora nascente Stato d’Israele, e che si sigilla proprio nell’epilogo del film, quando i progenitori di Laszlo riscrivono il senso dei suoi edifici: da audaci ribaltamenti della tecnica moderna più alienata (i campi di concentramento annullati da una concezione nuova dei soffitti) a mere testimonianze postmoderne, quindi eventualmente solo commemorative, in un percorso che porta in fondo a nuove forme di isolamento sociale.