Queer

di Luca Guadagnino

Dopo trent'anni da un epifanico incontro adolescenziale, Luca Guadagnino adatta il testo matrice, il modello della sua ricerca cinematografica. Il suo controllo formale è ormai al culmine ma questa volta la profondità delle sue strategie critofilmiche cortocircuitano con il vuoto distruttivo della scrittura di William Burroughs.

Queer- recensione film guadagnino

Quando nel 1985 William Burroughs si trova di fronte alla pubblicazione di Queer, trent’anni dopo averlo scritto, la sua posizione come autore è curiosamente simile a quella che caratterizza Luca Guadagnino oggi nella seconda metà degli anni Dieci del nuovo millennio: affermata, autorevole, ma soprattutto attenta alla domanda del mercato americano. Negli anni ’80 Burroughs ha superato il culmine del proprio potere di scrittura, ed è invece in un momento apicale di potere commerciale: non è più una voce, è ormai una firma, che conta anche fuori della cricca beat che lo aveva fatto conoscere nella cultura indipendente. Proprio in quanto firma, allo scrittore viene chiesto di siglare la pubblicazione del proprio esperimento giovanile, lasciato indietro per irrisolte questioni più personali che stilistiche – in particolare l’omicidio involontario della moglie Joan, fonte generativa dello scritto. Borroughs è meno che disinteressato, ma scrive una nuova introduzione. La nuova veste editoriale, più istituzionale, più normalizzata, magari stona con la vertigine della sua scrittura, inizialmente pensata per la pubblicazione indipendente di Ginsberg, ma in fondo ha il pregio inconsapevole di allineare le forme ai contenuti più impliciti. Di fare emergere in particolare, dietro al magma confessionale sulle proprie pulsioni, la netta fede nell’imperialismo americano (garante per lui di assoluta libertà d’espressione) e nella sua aggressività, con cui lo scrittore contrastava le correnti di sinistra che all’epoca contrastavano a loro volta l’omofobia attraverso una democratica resilienza cristiana – come esemplificava la posizione di Donald Cory, teorico del porre l’altra guancia di fronte alle offese. 

La versione del romanzo che, nel 1988, il diciassettenne Guadagnino incontra (per sua ammissione) in una traduzione italiana che porta il titolo di “Diverso”, non è quindi quella originale, non è una versione più completa, non un retcon delle intenzioni, che anzi vengono esplicitate, ma un oggetto teorico complesso: una mossa di autorialità performativa (mentre il dibattito sulla morte dell’autore infuriava), che indirettamente o meno spiega come conservare la progressione teorica della propria ricerca autoriale e allo stesso tempo difenderla dalla condizione di dipendenza dalle ragioni mercantili, sfruttando quest’ultime per mettere un’esponente politico alla propria autorialità.  “Diverso” (poi “Checca” e infine “Queer”) è quindi una fonte d’ispirazione produttiva, un modello di politica dell’autore, o semplicemente di politica dell’espressione potremmo dire, con cui confrontarsi anche trent’anni dopo l’incontro adolescenziale epifanico con uno stile di scrittura, con una grafia, capace di porsi il problema della rappresentazione della carne, della materia vivente, e di rispondere trasformando il linguaggio in un’altra carne, in un crogiuolo di sangue ribollente. Trent’anni in cui Guadagnino ha forse inseguito la realizzazione del suo Queer proprio ricercando la stessa posizione di autore capace di contrattualizzare le proprie ragioni rendendosi (in)dipendente nell’industria hollywoodiana. 

Anche per il regista, come per Burroughs, non preoccuparsi e imparare ad amare l’imperialismo americano è diventato garanzia implicita di libertà di movimento e di espressione della propria scrittura sul corpo. Anche per Guadagnino, come per Burroughs, normalizzare e comprimere parte di questa espressione è il prezzo da pagare per vederla realizzata. Lo scrittore dovette alleggerirla di almeno trenta pagine; il regista invece ha presentato a Venezia una versione più corta di quella pensata inizialmente e già pronta per essere venduta al pubblico americano (via A24), ripulita dall’ora di esplicite peregrinazioni sessuali del personaggio di William Lee a Città del Messico - questa invece è stata un'ammissione di Alberto Barbera. Il simmetrico gesto di decurtazione è rivelatorio della capacità più o meno fallimentare di controllare e appropriarsi delle aggressioni del mercato, sintomo di un dislivello tra le due opere: se per il primo corrispose a una decisione volontaria, coerente con il proprio progetto formale, per il secondo è stata probabilmente una costrizione, fonte di inaspettate contrattazioni che portano il film ad altrettanto irrisolti sbilanciamenti. Per Burroughs rimuovere parti della sua opera significava d’altra parte in qualche modo continuare l’azione cardine della propria scrittura: la capitalizzazione del vuoto, del non detto, del gap tra le parole prodotte dal cut-up. Per Guadagnino invece si tratta di un indebolimento – che finisce per essere più interessante del film, sul piano testuale niente più che una sintesi trasparente e prevedibile di interessi autoriali ormai talmente chiari da necessitare, per generare immagini sempre nuove, più le sfide produttive di una commissione (come Challengers), che quelle dettate da sogni personali.

craig queer

Per quanto originato secondo gli stessi principi di teoria della produzione d’autore, il suo adattamento non ruota infatti sullo stesso principio formale (il vuoto), ma sul suo opposto (il pieno). Lo si capisce già dalle immagini iniziali, in cui proprio i fogli del manoscritto di Burroughs/Lee vengono prima ripresi come semplici superfici bidimensionali stesi su un letto e poi come pareti di casette di carta. Ancora una volta l’intenzione di Guadagnino è quella di usare il cinema come un catalizzatore di tridimensionalità, e cioè di profondità corporea, verità materica, corretta referenza d’essere, per le cose che la rappresentazione, letteraria ma anche audiovisiva, raffigura invece senza corpo. L’inizio di Bones and All funzionava allo stesso modo, e cioè usando uno scarto dimensionale – passando dalle pareti pitturate a una serie di interni vuoti rigidamente prospettici e infine alla plastica di un corpo in movimento – per dichiararsi ripensamento di un immaginario, quello del cinema americano anni 80. Qui lo scarto non invita solo a pensare, alla maniera di una postfazione critica fuori tempo massimo, alle parole di Burroughs come qualcosa che cerca di esprimere a forza un corpo senza riuscirci del tutto per limiti connaturati al medium della scrittura, ma spinge anche ad accogliere l’immagine cinematografica come un naturale completamento, un esito felice di quelle stesse parole.

Guadagnino pensa alle proprie immagini come la superficie, nel senso proprio come parte esterna delle pulsioni, dei desideri sessuali, dell’urgenza di contatto che trasuda dalla scrittura di Burroughs attraverso il tramite fittizio di William Lee – un Daniel Craig a cui viene chiesto uno sforzo di materializzazione degli stimoli mentali forse superiore al suo raggio d’espressione. Per questo sceglie di piegare le parole dello scrittore, o meglio, di piegare il vuoto che sempre le precede e le segue (nella scrittura di Queer c’è secca inconcludenza nella prosa, ogni frase è una meteora), e di farci degli angoli, dei segni di profondità appunto, intorno. Angoli di stanze, stanze di un set. Ecco, quindi, il viaggio esotico di Lee e della sua ossessione Alderton ricreato nell’interno di Cinecittà. Ecco in questi interni una serie di diorami d’ispirazione pressburgeriana, secondo un linguaggio massimalista, di decoro, molto lontano dalla rarefazione e dalla dispersione della scrittura originale. Ed ecco inscritti in questi diorami tentativi sempre più vari di mostrare l’imporsi e il darsi dei corpi, il loro stare, attraverso il movimento di macchina e l’uso del colore, la manipolazione della recitazione e la musica fuori tempo, tutto per liberare la massa plastica dalla camicia di forza letteraria e permetterle di farsi materia in movimento nello spazio.  

L’ambiziosa idea di riempire gli spazi-tra-le-cose prodotti dal cut-up burroughsiano trova nell’invenzione di un finale alternativo, non scritto, il suo momento decisivo. Lee e Alderton, sono immersi nella ricerca dello yage. Nel romanzo non lo trovano e la chiusura è brusca. Nel film Guadagnino sembra incapace di decidere tra la necessità di esorcizzare l’horror vacui, dando un esito narrativo al viaggio dei protagonisti, e quella invece di abbracciare la sperimentazione anti-drammaturgica, evocata anche dalla presenza in scena di Lisandro Alonso, araldo dell’accesso a una zona cinematografica altra. Alla fine, è scelta una via mediana, rappresentata dalla messa in scena degli effetti psicotropi dello yage sui corpi dei due protagonisti. L’occasione per il regista di dare sfogo figurativo alle sue idee sull’immagine cinematografica come segno indessicale (prodotto dalla frizione del passaggio del corpo desiderante tra le maglie della realtà) è però anche un punto limite sintomatico: nella trasformazione totale e totalizzante delle parole negate al lettore da Burroughs in carne e materia offerte alla vista si ritorna a uno stadio di puro colore, e cioè a quella bidimensionalità inizialmente rifuggita. Si ritorna cioè a uno stadio prefigurativo che oltre a rivelare la difficile condizione espressiva del corpo (elemento paradossale che manda sempre in cortocircuito le strategie rappresentative) dice anche qualcosa rispetto all’effettiva funzione del vuoto (Gombrich la chiamava espressività dell’assenza) come modalità di espressione “positiva”.

C’è più corpo, c’è più materia (e tutto ciò di cui essa è allegoria, tra cui anche l’affermazione politica rispetto all’imperialismo) nella capitalizzazione autoriale del non detto piuttosto che nell’estenuante ed estenuata ricerca del pieno. E Guadagnino, di fronte alla compressione mercantile delle proprie immagini esplicite, di fronte cioè a un altro vuoto, forse avrebbe dovuto cogliere la costrizione come un’occasione per ripensare da capo le proprie strategie critofilmiche e farle del tutto coincidere al loro modello burroughsiano (così lungimirante), piuttosto che ribaltarle attraverso continui ossimori. Non per copiare il maestro, ma per risolvere con i suoi stessi strumenti la propria impasse produttiva e poi eventualmente tradirlo sul piano formale. Invece ecco che lo vediamo percorrere, con uno sforzo certo ammirevole ma in fondo estenuato, tutta la Storia del Cinema per dialogare con il mutismo del suo modello. Come nell’epilogo, nel controfinale di “Ritorno a città del Messico”, che cerca con nostalgia lo scrittore attraverso il massimalismo del Kubrick di 2001: Odissea nello SpazioE cioè fino alla resa, come si diceva, nei confronti di un’immagine oltre le immagini, una sfumatura oltre il cinema che dica tutto, che parli in senso esauriente, e che tuttavia ha le fattezze di un nuovo testo: “I’m not queer, I’m disembodied” si ripete ancora il protagonista mentre la sua anima si spegne insieme al film.

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 04/10/2024

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