The Knick 2x10 – This Is All We Are

Apogeo del contagio che domina il Novecento e il nostro contemporaneo, The Knick conferma il suo status artistico con una chiusa di rara potenza. Che l'occhio ferito rinasca nello sguardo interiore.

Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante in cui seppe, cessò di sapere”.

Martin Eden, Jack London

This Is All We Are.

Carne e sangue, ma soprattutto occhi, vista. Alla fine di tutto, nell’istante in cui ci avviciniamo a sapere, siamo soltanto uno sguardo, la morte è uno sfarfallio ai margini del campo visivo, la morte è anzitutto il venir meno dell’immagine, il fuoco allentarsi, i contorni sfocarsi. Tutto The Knick è la storia di uno sguardo che viene meno, dalla soggettiva di Christiansen a quella di Thackery, un cerchio che si chiude nell’emblema del punto di vista, dell’immagine come ultima parte di sé ad andarsene.

Ma l’occhio che muore è anche quello di Algernon, vittima di iracondia e destino fatale, di vendetta e ritorsioni eugenetiche. Algernon è l’occhio che fallisce, ma forse nel suo decadimento nuove strade si aprono, nuove prospettive, direzioni, speranze. L’occhio morto di Algernon diventa la parola della psicoterapia, diventa il virus del linguaggio.

Altra infezione dello sguardo è quella che vive nell’occhio di Henry Robertson, emblema del nuovo capitalismo americano, dei subprime e delle speculazioni finanziarie, detentore del potere del cinema. Henry è l’occhio che uccide, la mente che riprende e immortala il mondo mentre ne condanna le sorti sull’altare del dio mercato. Per tutta la seconda stagione di The Knick abbiamo atteso l’esplosione del contagio, atteso il manifestarsi dell’infezione cui tanti segni facevano riferimento. La detection, l’attesa spettatoriale, i riferimenti intra-testuali tra le varie storyline, tutto un colossale MacGuffin. Il contagio non ha preso il controllo evidente della vicenda, non abbiamo avuto un nuovo climax narrativo come nella precedente stagione, perché l’infezione in realtà è già arrivata, è almeno un secolo che siamo contagiati. Il virus è qui, è dentro di noi, come Contagion viaggia con le nostre merci, i nostri corpi, le nostre parole.

Siamo già infetti.

Giunta alla fine del suo percorso naturale (altro potrebbe seguire ma una fase si chiude evidentemente qui), The Knick porta a compimento la sua disamina del Novecento ruotando attorno a quest’assenza/presenza.

Il contagio, sembra dirci, è la cifra essenziale del secolo passato, è il perno da cui scaturiscono e nel quale ritornano tutte le ideologie, i flussi di comunicazione, le nuove immagini cinematografiche, la dipendenza. Già nella prima stagione il vampirismo attraversava la narrazione nelle vesti di una sete morfinomane da condividere, regalare, godere, passare al prossimo come un lascito parentale. Adesso il contagio prende la forma della peste, ma la sua inoculazione è economica, morale. I corpi infetti viaggiano come merci perché gli organi che li sospingono sono già compromessi, troppo legati a logiche di interesse per farne pulizia. La vera, autentica, infezione, attorno alla quale tutto ruota, è quella di Henry Robertson, una bestialità immorale che nasce nel capitale ma trascende la classe, arrivando a colpire con subdola efficacia anche i ceti più bassi, come quello cui appartiene la coppia formata da Harriet e Tom Cleary. Anche quello che sembrava l’ultimo angolo di purezza rimasto svela la sua manipolante corruzione (e la confessione che ne risulta è una delle scene più belle viste in televisione negli ultimi anni).

Dalle mani bubboniche di Barrow alle parole eugenetiche di Gallinger, pronte ad infiammare la Germania. Solo Cornelia sembra salvarsi, unica figura femminile in fuga mentre la femme fatale che è diventata Lucy Elkins decide di usare la sua nuova indipendenza sessuale (e quindi identitaria) come infallibile arma di scalata sociale.

Inarrestabile, invisibile, il virus del Novecento risale i connettivi nervosi di una narrazione corale assieme esplosa e contratta, capace di bilanciare la dispersione dei suoi personaggi alla necessaria centralità del palcoscenico, del suo assoluto mattatore. E mentre il teatro si scinde dal suo gemello siamese per diventare cinema, mentre la macchina da presa irrompe sul set del reale e in quello della più attenta manipolazione, l’Icaro che da sempre spinge la Storia in avanti trova la sua fine più desiderata. Ogni dipendenza estrema flirta con la morte, vive di possesso e controllo ma ambisce anche al vuoto, all’immagine fuori fuoco, al limite. Ed è lì che riesce infine ad arrivare l’immenso John Thackery, cuore del Novecento e di una macchina dello spettacolo che solo accetta il funambolo che vola senza rete.

Thack alla fine ha compreso la verità a discapito di perderla, la sua lotta contro la dipendenza è la storia di una sconfitta perché non sono il bisturi e l’etere le soluzioni a quest’infezione, ma la parola. In quanto infezione esso stesso, è il linguaggio l’unica entità a poter fare da reale contraltare al contagio, solo in esso l’occhio ferito può cambiare direzione e introiettarsi in un nuovo viaggio dentro una nuova carne.

“Tell me about them”

Freud, Jung, Cronenberg. A bordo della nave «George Washington» i padri del dangerous method approdano a New York nel 27 dicembre del 1909. Portano la peste, sotto forma di parole capaci di entrare in contatto con gli aspetti più reconditi della nostra mente. Nasce la psicanalisi, la stessa che The Knick riporta agli albori e decide di porre alla fine del suo percorso, con un gesto teorico lucidissimo atto a far convergere ogni minuto degli oltre 1000 che compongono la serie verso un nuovo inizio, una palingenesi dell’occhio raggiunta attraverso la trasformazione in nuovi sguardi, nuove soggettive. Ma la limpida bellezza e forza di questa conclusione è solo l’ultima delle evidenze che passo dopo passo hanno dimostrato il valore della serie firmata Soderbergh, Amiel, Begler, un percorso che per intelligenza, profondità, spessore teorico e assieme poetico non ha davvero eguali nella serialità contemporanea.

Sarebbe un grave errore allora giudicare questo viaggio al di fuori della sua veste seriale, collocandolo secondo vecchie gerarchie all’interno dell’iperuranio cinematografico.

The Knick infatti fa un uso profondo e continuo delle più classiche strategie della narrazione seriale, emerse soprattutto con la coralità espansa di questa seconda stagione. Rispetto alla precedente questa tranche di episodi ha potuto approfondire tutti quei temi e argomenti messi in campo in precedenza, facendoli deflagrare in una struttura a rete dalle maglie apparentemente larghe e in realtà fittissime. E questo è solo un esempio, altri se ne potrebbero fare per dimostrare l’importanza del meccanismo seriale all’interno di questo meraviglioso oggetto audiovisivo.

Sarà utile tornare allora, per chiudere un’analisi giocoforza parziale di un’opera vasta come questa, a quanto scritto nella copertina dedicata all’arrivo di Netflix. In particolare in quel frangente si è avuto modo di riflettere sulla vecchia concezione che vedeva un prodotto audiovisivo legato ontologicamente al suo supporto di fruizione: il cinema era tale anche perché lo si vedeva in sala, la televisione era tale anche perché la si vedeva sul piccolo schermo. Un prodotto come The Knick allora, profonda serialità d’autore allo stato dell’arte, ci ricorda come le categorie future debbano liberarsi dal supporto per guardare unicamente alla natura sostanziale dell’audiovisivo in sé. Da una parte narrazione seriale, dall’altra narrazione filmica, due percorsi paralleli e privi di ordine gerarchico.

The Knick allora non è televisione elevata a cinema, ma grande serialità occasionalmente trasmessa sul piccolo schermo, grande serialità che si è nutrita di logiche cinematografiche (a partire da quella di Autore) per approdare a livelli di inedita intensità poetica e concettuale. Per accorgersene però bisogna smettere di pensare come Gallinger, ripulire il proprio sguardo da ogni eugenetica audiovisiva per aprirsi alla nuova e pura bellezza del gesto artistico.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 23/12/2015

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