Kruh in mleko (Bread and Milk)

Un rivolo di latte scivola sui gradini, tingendo di candore il grigio di una sporcizia che inquina l’anima. Una famiglia alla deriva tenta la vana aderenza di cocci ormai sgretolati. Il capofamiglia ex alcolista viene dimesso in anticipo da un ospedale in protesta, atteso da una moglie che lascia scorrere le ultime tracce di bellezza dietro una porta ermetica al mondo, con indelebili segni di sofferenza su una pelle ancora giovane. Assordato dalla musica e dalla droga, il figlio Robi si abbandona al dramma ereditato dal padre.

Il regista Jan Cvitkovic, ex studente di fisica votato al viaggio e all’archeologia, ritrae con pennellate delicate le ferite di una famiglia in cui si riconosce un intero popolo. Girato interamente in Slovenia, Kruh in mleko (Bread and Milk) è il ritratto sensibile di un destino di inetti, il cui ultimo grido disperato si traduce in un rantolo di follia distruttiva. Una storia che affonda nel sentimento cosmico con un’economia poetica che non si perde in melodrammaticità superflua, ma si declina in un’ora di sensibilità emozionante, senza la necessità di quelle elucubrazioni cervellotico-filosofiche che sembrano interessare sempre più gran parte dell’ultimo cinema. La pellicola, inizialmente girata in 16mm e poi gonfiata a 35, era destinata al cortometraggio, ma il regista ha lasciato scorrere il respiro naturale dei propri personaggi su cui poggia discreto l’occhio meccanico, definendone con sguardo documentario le ferite più intime. Una musica altalenante di techno mista ad hardcore stride con ogni singola scena marcatamente lirica, con i silenzi venati di dolore che incidono quel bianco e nero di un’esistenza in declino. Il grigio-bianco che pervade l’intero film si frange in un secondo finale che segna l’ineluttabilità di un manicheismo non superato: paradiso e inferno si delineano nell’asettico bianco dell’ospedale e nel nero prolungato che scende sull’ultimo fotogramma di mondo silenzioso, ormai invaso dal suono pneumatico. Focolare e perdizione si mischiano nella vita di tre persone fino all’ultimo impulso di amore, in un urlo di sorda solidarietà che confluisce in un’urgenza emotiva che irrompe. Dalla complicità all’isolamento si arriva progressivamente al ricongiungimento apocalittico di prigionia e immobilità, e le sbarre che si stagliano sul fondo iniziale si riallacciano alle pareti allucinate del finale, passando per i rombi che ingabbiano lo sguardo della donna, fisso sul cedimento del marito. Interni che si chiudono su se stessi e implodono strozzandosi nell’ultimo frammento di città che scorre. La liturgia di un nido familiare si frantuma nell’attimo stesso in cui si avverte lo schianto del pane e del latte sul pavimento, mentre gli occhi vacui rimandano ad una serenità sempre intravista, ma mai afferrata. E la resa di vittime impreparate si coagula in quell’icona domestica di un’innocenza inarrivabile.

La debolezza umana invade la quotidianità su cui la macchina da presa si sofferma timidamente, senza lungaggini, senza sprecare un singolo fotogramma, tutti tesi al senso di perdita di chi si accascia sui propri fallimenti. Il piglio asciutto e parsimonioso evita l’eccesso di un sentimentalismo patetico, a vantaggio di una vena intimistica fatta di dettagli essenziali. Un film sincero privo di moralismo, che impasta il bianco nel grigio per raccontare, in una sorta di mise en abime, la tragicità che intacca quei volti, quelle giacche, quei luoghi invecchiati e lisi.

Autore: Marta Gasparroni
Pubblicato il 18/02/2015

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