La comune
Il regista di "Festen" torna a indagare le complessità borghesi con un'opera semi-autobiografica e filtrata dalla commedia pungente.
Nella sua carriera, fra polemiche contro un cinema corrotto dagli effetti speciali e da altri ’dogmi’ della settima arte, Thomas Vinterberg ha sempre messo al centro dei suoi film la convivenza come forma di debolezza o fragilità destinata a causare sofferenza. Accadeva in quel cinismo fulminante di cui Festen - Festa in famiglia grondava, per continuare nel 2012 attraverso le lenti antiborghesi, con camera e sguardo più fermi de Il Sospetto, ed ora seguendo le tracce autobiografiche della sua infanzia vissuta in una comune da bambino (dal 1976 al 1985 a nord di Copenhagen). Perchè c’è totale coinvolgimento in questo nucleo famigliare allargato, con pranzi conviviali e danze intorno al fuoco all’ordine del giorno: lo si percepisce attraverso le musiche, gli amori infranti, nello scambio reciproco di emozioni tra ’sconosciuti’ (declinate per status, posizione sociale, carattere) e dentro un esperimento del vivere tutti assieme, condividendo un tetto, piccoli e grandi egoismi, slanci appassionanti. Memorie collettive di un’epoca, i trasgressivi anni ’70, dove la bellezza di alcune utopie faceva sembrare ogni conquista un ponte di cambiamento per il mondo intero. Dopotutto, il declino dell’impero americano era visto anche da lì: lungo una generazione europea che realizzava il mito dell’amore libero, dell’idealizzazione ingenua, della celebrazione fintamente ’libertina’ a una vita piena di compartecipazione (alle gioie come ai dolori) e speranze.
Eppure La comune si ferma prima, con distacco netto, per far emergere le pulsioni più contradditorie dell’animo umano. Non focalizzandosi mai veramente sulle situazioni politiche o spinose del periodo, tradendo così le sue stesse premesse e lasciando il più inesplorato. A Vinterberg interessa restare fedele alla commedia pungente, aspra nel ’destino’, che metta in scena un’opera corale senza sadismi ma non rinunciando a compenetrare un certo clima culturale fatto di enormi conflitti ed illusioni, capaci di lasciare segni dolorosi negli otto personaggi raffigurati sullo sfondo. Al triangolo amoroso tra Anna (una straordinaria Trine Dyrholm, premiata a Berlino con l’Orso alla migliore interpretazione), suo marito Erik e la nuova fiamma di quest’ultimo, oltre agli altri inquilini della casa messi di fronte alla crisi coniugale e che mina lo stesso vivere comunitariamente, si aggiungono l’adolescente Freja e un bambino di nove anni affetto da gravi problemi cardiaci. Sono loro le due colonne portanti della trama verticale, il filtro drammatico con cui guardare ai deragliamenti catastrofici degli adulti pronti ad esplodere da un momento all’altro. Tutto allora diviene in potenza ne La comune, dai pianti agli eccessi di rabbia, dalle gelosie ai tormenti interiori; il regista danese accumula elementi narrativi per poi prendere traiettorie inaspettate, gonfiando i crolli inesorabili di una coppia di genitori finita vittima del suo stesso idealismo. Dinanzi al mutamento degli ’equilibri’ ecco sopraggiungere la tragedia (sulle note musicali di "Goodbye Yellow Brick Road" di Elton John), quando la consapevolezza si tramuta nella scommessa persa di una posta in gioco troppo alta.
Nonostante il mescolare e il ri-mescolare le carte, la mano di Vinterberg è sempre leggera, vivace quanto basta a creare un’empatia delicata verso ogni singolo protagonista. Lo stesso mettere in luce i limiti di un esperimento sociologico che si rivelerà poi fallimentare, proponendo una denuncia interessante nel suo mostrare un’ambiguità pericolosa, non solo naivité ma anche grottescamente burbera. Insomma, che l’uomo moderno finisca impantanato nella tela di un microcosmo sentimentale allargato è l’ennesima prova di un disperato bisogno d’amore che nemmeno combattendo le convenzioni sociali riuscirà ad evincere. Perché, nel paradosso, La comune vuole essere anche un film sulla solitudine, su quel vuoto incolmabile che entra in conflitto con qualsiasi tentativo di conciliazione fra le esigenze della collettività e le proprie crisi personali (la depressione, le miserie degli affetti mal corrisposti). Una fusione della partecipazione emotiva come motore di ricerca antropologica – che le eccelse interpretazioni degli attori amplificano – per aggrapparsi ad un sogno intimo nonché allegorico, dove a distinguersi sono una nota nostalgica ed un’altra più derisoria. Se tutto scorre e nulla è eterno, allora sotto il tappetto dell’apparenza c’è sempre la speranza nel ricominciare: per tornare ad amare, comunque vada, e ricordarsi che la fragilità è cosa ’umana’ ed uguale per tutti. Anticonformisti inclusi.