La grande scommessa

Una commedia corale ed amara sull'esplosione della bolla immobiliare statunitense e sulle sue conseguenze a livello globale

L’apertura con la frase di uno dei padri della letteratura americana, Mark Twain, antimperialista liberale per definizione, con le immagini di un padre che porta sulle spalle suo figlio, ci fa riflettere sin dal principio concedendo allo spettatore un chiaro memorandum dedicato alla parte lesa – il ceto medio e proletario – colpita dalla crisi dei subprime. Iniziata nella seconda metà del 2006 e riconosciuta nel 2007 con il crollo totale, l’esplosione della bolla, nel 2008, la crisi ha come oggetto la concessione da parte degli istituti di credito americano a clienti a forte rischio debitorio di prestiti (subprime) ad alto rischio finanziario. Il rialzo dei tassi di interesse sulla concessione dei mutui rilasciati causarono l’insolvenza – di massa - da parte dei debitori, facendo crollare l’economia statunitense e le più importanti banche d’affari e portando alla rovina un numero, statistico, elevatissimo di persone appartenenti alla middle class, perlopiù famiglie costrette sul lastrico, dovuto alla speculazione finanziaria sulla quale si basava tutto il sistema. La grande scommessa di Adam Mckay ci racconta la storia di alcuni individui che riuscendo a prevedere il crollo dei titoli “sicuri” immobiliari a tripla A, hanno scommesso contro le banche vincendo una somma multimiliardaria. Se per Micheal Moore il capitalismo è una storia d’amore contraddittoria a stelle e strisce (Capitalism: A Love Story) trattata con acume (giustamente) polemico attraverso un processo di indagine trasversale, trattando tematiche fortemente radicate all’interno del sistema statunitense, arrivando ad un disamina sull’evangelizzazzione cristiana contraria rispetto alla fede cattolica dei partiti che perlopiù lo sostengono; Adam Mckay mette in scena vari gruppi di personaggi, legati da interessi privati o bancari, acuti ed intelligenti osservatori di un mercato e di un sistema oramai ottuso, tanto tronfio del successo e della sicurezza dell’intero meccanismo da non accorgersi dell’imminente collasso. Un Giulio Cesare - nell’associazione semantica che nel film soggiace tra l’imperatore romano e l’imperialismo finanziario - in rovina e decadimento, impossibilitato dalla sicurezza del successo e dalla (falsa) solidità del sistema da non accorgersi delle fondamenta marce sulle quali si basa tutto il suo impero. A discapito della materia, respingente nella terminologia ed impenetrabile nell’argomento, Mckay struttura il film come se fosse una tragedia vestita da commedia, in grado di aprire dei simpatici e riassuntivi siparietti dove i punti centrali della faccenda vengono spiegati tramite il confronto e l’analogia con esempi onnicomprensivi di differente – e semplice - natura contestuale. Il ricorso alla frontalità della narrazione, sempre pronta e capace a togliere la finzione dal racconto rivolgendosi in macchina ed eliminando l’incanto oggettivo della quarta parete, si intersecano con del materiale disomogeneo, per certi versi brechtiano, nelle didascalie in sovrimpressione di sintesi evocativa tratte dalla penna di alcuni importanti scrittori contemporanei e non. Il montaggio diventa il collante tramite il quale unire materiale televisivo e narrazione diegetica, didascalie e sguardi in macchina, richiami diretti allo spettatore continuamente preso in causa dai personaggi e dalle logiche di narrazione. La verbosità sorkiniana di stampo seriale e cinematografico – non a caso il film è tratto dal libro di Micheal Lewis, The Big Short, autore dal quale Sorkin ha tratto la sceneggiatura di Moneyball - diventa l’oratoria attraverso la quale far comunicare gli attori in scena, tramite di un narratività cinematografica che si interseca con la televisione e viceversa, in un costante scambio tra la sala e ed il piccolo schermo, esempio di un cambiamento orientato alla sempre più verso la commistione, audiovisiva, dei due formati. Film interpretato da un cast d’eccezione nel quale risaltano le interpretazioni di Christian Bale e Steve Carrell, ma non solo, nel cast troviamo anche Ryan Goslin e Brad Pitt (in un personaggio redfordiano) e tanti altri. Una commedia corale, amara, che descrive un mondo costruito come un casinò, dove si gioca per vincere una mano in un tavolo senza rendersi veramente conto dell’effettiva posta in gioco, un mondo infantile ed al limite del grottesco, gestito da adulti incapaci di crescere, che si muovono dentro un asilo nido di numeri e statistiche, in business rapaci e fraudolenti interessi capitalistici. Una pignatta da colpire ad occhi chiusi, da far esplodere con un colpo fortunato e ben assestato, un contenitore di immagini, alcune divertenti altre dolorose, che il regista farcisce tramite flash istantanei, utili a descrivere ed a ricordarci che dietro al gioco infantilista della scommessa nel gioco ad alto rischio della borsa, ci sono una quantità di persone normali, onesti risparmiatori pronti ad esplodere ed a pagarne le conseguenze della lor avventatezza. Dal gioco ideale e ferino alla realtà vera e pratica, La grande scommessa, allo stesso tempo addolora e far sorridere, descrivendo un sogno americano che si trasforma, all’esplosione della bolla immobiliare, in un disastro prima americano e poi mondiale. Meno drammatico, spietato e thrilling del sontuoso Margin Call, il fim di McKay utilizza l’ironia per narrare il solito gioco d’azzardo dei grandi realizzato con gli interessi dei pochi, una pillola esplicativa agrodolce, una risposta alla domanda della crisi che oggi tutti ci facciamo, facile e divertente da vedere ma tanto difficile da ingoiare.

Dedicato a quella parte di vita che non ha niente a che fare con gli affari, alle famiglie (affittuarie) su zattere di legno in un mare di debito, alla conoscenza dei tanti piccoli numeri sui pochi grandi interessi. Truth is like a poetry. And most people fucking hate poetry.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 03/02/2016

Articoli correlati

Ultimi della categoria