“Tu sei il cavaliere danzante”
La Granduchessa a Kaspar
Sarebbe impossibile iniziare un discorso su un personaggio tanto enigmatico come Kaspar Hauser, perno centrale dell’ultimo film di Davide Manuli, senza porsi la domanda che da più di un secolo ha affascinato le più varie e distanti menti occidentali: Chi è Kaspar Hauser? Non vogliamo qui sciogliere nodi secolari o dare un’identità singolare ed univoca al personaggio che ha sollevato dubbi e dibattiti in quasi due secoli; fonte enigmatica di molti libri, quoziente X di equazioni artistiche cinematografiche – uno su tutti L’enigma di Herzog – e personaggio di numerose pièce teatrali.Questo perché sappiamo che la domanda a volte è più importante della definizione: Chi è Kaspar Hauser?
Forse non è importante rispondere ad una domanda simile, soprattutto perché se veramente sapessimo chi fosse stato questo piccolo uomo, uscito fuori dal nulla in una piazza di Norimberga nel lontano Maggio del 1828, di circa sedici anni, che a malapena riusciva a stare in piedi, con una lettera in mano destinata al capitano von Wessing e morto in circostanze misteriose – accoltellato in un parco dopo esser passato tra vari precettori – se sapessimo davvero rispondere con esattezza a questa domanda, Kaspar Hauser magicamente scomparirebbe al primo soffio di vento come se non fosse mai esistito. Questo perché egli vive della sua identità labile, dell’incertezza classificatoria, è un quoziente neutro elevato alle infinite possibilità di essere, la sua mitografia non avrebbe senso se non finisse sempre con un punto interrogativo. Pe alcuni del suo tempo un rampollo, principe di Baden, vittima sacrificale di intrighi dinastici. Per alcuni esegeti, tra cui il filosofo ed esoterista Rudolf Steiner, Kaspar Hauser è stato il principio del cambiamento ucciso dallo status quo, lo spirito del tempo schiantato contro un muro umano di divieti, l’emanazione dello zeitgeist romantico ed invincibile, trovato morto di fronte al principio decadentista che avrebbe successivamente soffocato il cristianesimo esoterico; impedendogli di diventare la forma egemone di spiritualità occidentale. Altri, fantasiose congetturazioni gesuitiche, vedono in lui un’anomalia della storia dell’umanità, l’imprevisto in grado di creare un ritardo spaziotemporale che successivamente porterà alla nascita dei campi di sterminio nazisti. Hiltel, il guardiano di Kaspar durante la sua prigionia, fu affascinato dalla storia del ragazzo selvaggio dichiarando, in una nota verbale compilata dalla Corte di Giustizia nel 1834, “Kaspar Hauser mi ha talmente toccato con la sua bontà e la sua docilità nell’apprendere, che mi sarebbe stato impossibile fargli lasciare la casa se non avessi avuto il peso di otto figli“. Se veramente sapessimo chi fosse questo ragazzo, forse Herzog ne avrebbe comunque fatto un film sul personaggio, avrebbe comunque raccontato la storia dell’Enigma del secolo, ma non avrebbe sottointeso il messaggio che dalla visione ne deriva, avrebbe raccontato storicamente, senza lasciare intendere che dietro Kaspar Hauser si annida una società celebrale, cerimoniale e superficiale, di cui il ragazzo non è nient’altro che la pancia dell’emozione sacra, il principio non ancora strumentalizzato dalla società circostante, la purezza e la logica senza l’ottusità menzognera e ciarliera delle meccaniche aristocratiche e “civili” del diciassettesimo secolo occidentale. Kaspar Hauser per Herzog è un essere umano violentato dalla civiltà, un piccolo uomo che si è creato nella sua cella un mondo fatto di sporca ed essenziale semplicità, uno stato questo difficile da far coesistere con l’apertura della sua gabbia nel mondo civile; chiara in tal senso è la scena della metafora della torre, dove Kaspar mostra al precettore l’assurdità del punto di vista.
Ognuno, nel suo intimo, ha dato un’identità a Kaspar Hauser cercando sempre di identificarlo e circoscriverlo in un significato, per confinarne l’estranietà forte e destabilizzante, ripiegando nell’immobilismo societario ed individuale.
Chi è Kaspar Hauser, oggi, nel 2013, letto sotto l’ottica registica di Manuli? O meglio, cosa può rapprensentare oggi un personaggio così inclassificabile, se rappresentato dall’autore di Beket? Nel dittico, Beket e La leggenda di Kaspar Hauser, sull’assurdità del mondo circostante, il ragazzo selvaggio arrivato sull’isola X nel tempo Y, non è nient’altro che Godot nato dal mare con due enormi cuffie che, se da un lato insonorizzano l’esterno lasciando muti i personaggi che cercano di identificarlo, dall’altro egli comunica verso loro stessi in maniera inversa, quindi dall’interno verso l’esterno, attraverso una musica emotiva e vitale, attraverso vibrazioni elettroniche di complicità umana. Un nuovo modo di toccare lo spettatore alla base di un nuovo linguaggio cinematografico; nel circo del mostruoso e dell’incomunicabilità i sordi sono re e profeti mentre gli altri sono archetipi necessari di umana incomprensione. Intorno a lui un luogo magnifico come la Gallura (ancora in Sardegna dopo Beket), talmente bello e maestoso da togliere allo spettatore la certezza della reale esistenza del posto. Dei paesaggi che sconfinano in un altrove difficilmente individuabile. La fotografia in bianco e nero, del fidato Tarek Ben Abdallah, non aiuta a definirlo anzi, lo distanzia sempre più, mantendolo ai margini di una quinta teatrale di meravigliosa fattura naturale. L’isola è la bellezza propria del posto X. Su di essa ed intorno a Kaspar Hauser si muovono dei personaggi che sembrano prendere vita da un mazzo di tarocchi o da uno zibaldone della Commedia, c’è un meraviglioso Vincet Gallo nel doppio ruolo western dello sceriffo e del pusher, c’è un simpaticissimo Gifuni che interpreta un prete – un Frà Bastiano pieno di dubbi sulla fede e con un piglio cazzarone –, la Gerini che, in quell’abito da Granduchessa malvagia, mette tutto il suo fascino a favore del film, c’è il mostruoso servo Marco Lampis nel ruolo del Drago, c’è la bellezza selvatica della puttana, una bellissima Elisa Sednaoui e poi c’è Kaspar, interpretato dall’androgina Silvia Calderoli. Ma loro chi sono? Cosa rappresentano? Simbolicamente tutto e allo stesso tempo nient’altro che: uno sceriffo, un pusher, un alieno straniero venuto dal mare, una puttana, una granduchessa, un servo ed un prete. Archetipi umani. Figure bidimensionali cariche di assoluti. Loro sono la civiltà. Loro sono l’assurdità. Mentre Kaspar Hauser è solo un conduttore sonoro, una cassa di risonanza. È il tramite della musica che unisce. È un personaggio acusmatico, diegetico e musicale, dal quale nasce e si trasmette la musica: il Verbo appunto. E’ la musica nelle cuffie che dà vita a Kaspar quando è nella gabbia, è lui il salvatore (chiara la vicinanza cristologica soprattutto nella scena in cui Kaspar parla con il prete appollaiato su un trespolo avendo in testa una corona di spine), è lui l’Ufo, è lui il Dj. E cosa c’è di meglio di una esatta melodia sintetizzata dall’elettronica per far battere il piede dell’ascoltatore comunicando, soprattutto inconsciamente, con lui? La musica per Manuli è liberazione dall’assurdità attraverso una comunicazione ballata, prima sentita nelle vene (iniettata come in Girotondo, oppure usata come palliativo alla solitudine in Beket) e poi sentita nei muscoli, nel proprio battito cardiaco, nel corpo dell’altro diverso da noi, oramai non più straniero ma compagno danzante di vecchia data. Se tutto perde di significato la musica almeno ci rende simili. Attraverso di lei possiamo comunicare fisicamente senza l’uso delle parole civili. Le musiche di un Vitalic in stato di grazia (pensate alla magnificenza coinvolgitiva del suo VTLZR, progetto live del suo ultimo album Rave Age) sono il messaggio del profeta venuto dal mare, uno straniero estraneo a quel piccolo mondo che da esso viene ucciso per inappropriata appartenenza ad esso: d’altronde se esiste una regina a cosa serve un re?
La domanda non è tanto chi è Kaspar Hauser, ma cosa vogliono gli altri da lui. Lui è musica. Non è parole. Queste ultime non le ascolta, restano mute, impossibilitate ad arrivare fino all’orecchio precluso dalla cuffia. Il Prete si avvicina alla soluzione chiedendosi da dove può venire lo straniero se non esiste né un dentro né un fuori spaziotemporale, ma Kaspar è stordito, non può udirlo. Diventa il personaggio principale di un circo dove i freak stanno fuori dal tendone. Diventa una marionetta nelle mani dell’insensatezza. Kaspar vuole fare la sua biografia, dice il Drago via telefono, ma ne fraintende il messaggio, comunicandolo già frainteso al pusher, che continua a fraintenderlo a sua volta. Un gioco del telefono infinito dove alla fine il messaggio originario ha perso il suo significato primario. Dove la domanda prima: “Chi è Kaspar Hauser?” perde di senso una volta appurata la risposta menzognera. Ciò che rimane è solo struttura e sound system, un mix, due giradischi e lo sceriffo che insegna a Kaspar la grammatica del Verbo facendo pompare le casse con Poison Lips di Vitalic. E se il maestro Dj è Vincent Gallo io urlo al miracolo del cult.
Manuli lavora di sottrazione, toglie la Storia dal personaggio lasciando inalterate le figure, creando un vuoto primordiale, essenziale stilisticamente, ma comunque colmo di immagine e suono ipnotizzabile. Tutto sembra fermarsi all’essenzialità del quadro, dalla camera fissa su paesaggi lunatici, ai personaggi che si muovono nella scena limitati da un proscenio con una prospettiva naturale vertiginosa, Manuli li segue massimo in panoramica, a volte usa qualche carrello lento, così a noi sembra che usando questa dieta stilistica tolga tutto il grasso in eccedenza, creando un film magro ma che in realtà trasmette febbrilmente sensazioni di pieno. Arrivando a creare un supercampo sonoro dove riusciamo a riconoscere l’immagine prima ancora di vederla, dove se c’è musica sappiamo già che qualcuno nell’immagine sta ballando\\\\comunicando; riuscendo in tutto questo attraverso la netta ricorsività tra rumore ambientale, dialoghi e l’electro-house di Vitalic delle scene ballate.
Se nel precedente Beket “Vladimiro ed Estragone” percorrono il vuoto, un non luogo privato del tempo, incontrandosi poi con personaggi appuntati solo come sagome di passaggio, in Kaspar Hauser l’umanità che vive sull’isola X è resa attraverso un gioco molto ordinato di coppie contrapposte, i buoni, che aiutano Kaspar, i cattivi che rinnegano Kaspar, definendolo un truffatore perciò privandolo della sua autenticità, ed i soliti neutrali. Vivendo tutti insieme la sua straordinaria venuta in quel indeterminato ed indecifrabile tempo Y. Un film denso di metafore, allegorie simboliche, un film in cui è richiesta una pausa, dove lo spettatore deve soffermarsi, pensare senza l’ansiosità della ripartenza, ragionarci sopra per poterselo godere appieno; oppure un film difficile, senza senso, definizioni queste sbrigative per gente impegnata, gente che non può fermasi un istante, gente che corre ai ripari del futile, rinnegandolo per paura di mostrarsi esseri pensanti. Manuli lascia le porte aperte al decifrabile, lascia che tra i loro stipiti provenga musica elettronica, mantenendo l’opera sui confini dell’interpretabile. Nel dittico sull’assurdità umana prima è stato Godot, adesso Kaspar Hauser, figure entrambe che non necessitano risposta ma che includono nei loro nomi la stessa simile domanda: Quando arriva Godot? Ma soprattutto: Chi è Kaspar Hauser? Domandarselo comunque sapendo che la risposta può non essere importante.