Ammore e malavita
Il musical napoletano dei Manetti bros. decostruisce l'immaginario di Gomorra tra cinema di genere e referenze pop.
C’è una sequenza in Ammore e malavita, l’ottavo lungometraggio dei fratelli romani Marco e Antonio Manetti, che racchiude il senso di tutto il film.
Ciro (Giampaolo Morelli) e Fatima (Serena Rossi) si rincontrano dopo più di dieci anni tra le corsie dell’ospedale San Gennaro di Napoli. Lui sta cercando un’infermiera, rea di aver riconosciuto un boss della Camorra che si sta invece fingendo morto a causa di in una sparatoria. Quando i due si vedono, Fatima riconosce Ciro: sono stati fidanzati da ragazzi, prima che lui decidesse di entrare in un clan camorristico. Lui, così, realizza che l’infermiera che deve eliminare è proprio lei. A quel punto parte una versione napoletana, cantata da Fatima stessa, di What a Feeling di Giorgio Moroder, già interpretata da Irene Cara per il film cult anni ottanta Flashdance. Attraverso le parole della celebre canzone – il cui ritornello, rivisitato per l’occasione, diventa «Che fine hai fatto? Addo’ si’ stato?» – ci viene così raccontata la loro storia d’amore giovanile. Nel frattempo le corsie deserte dell’ospedale si popolano di malati che ballano e cantano, quasi fossimo in un nuovo La La Land. Di fronte all’improvviso riaffiorare di ricordi, Ciro si rifiuta di ammazzare Fatima e scappa con lei innescando una spirale tragicomica di violenze efferate e situazioni ai limiti del grottesco.
Con il precedente Song’e Napule i fratelli Manetti ci avevano già abituato a una virtuosa fusione tra cinema di genere italiano (soprattutto poliziottesco anni settanta, di cui sono consumatori accaniti) e film musicale rivisitato in salsa napoletana. Con Ammore e malavita, presentato in Concorso a Venezia 74, si spingono però oltre, unendo ai due riferimenti precedenti il linguaggio tradizionale e gli stilemi estetico-narrativi del musical americano. Una scommessa assai rischiosa, così come la decisione di Alberto Barbera di inserire un film così bizzarro nella selezione ufficiale della Mostra. Scommessa e decisione, ci sentiamo di dire, ampiamente vinte. Non solo perché, a ridosso dalla fine del Festival, di film con questa apertura e leggerezza si sente davvero il bisogno, ma anche e soprattutto perché i due registi romani riescono a mantenere il loro film in costante equilibrio tra delicatezza e complessità. Per non parlare dei momenti comici, ben dosati nel corso dell’intera narrazione, che rimangono tra i più esilaranti visti quest’anno al Lido.
Viene, piuttosto, da domandarsi come verrà accolto un film di questo tipo, apparentemente provinciale, dalla stampa (e della giuria) internazionale. I registi, consci del rischio di localizzare eccessivamente la loro opera, attuano in questo senso un’intelligente e consapevole operazione di richiami e referenze al cinema americano, con cui costellano non soltanto l’immaginario da loro ricreato e attualizzato, ma gli stessi dialoghi tra i protagonisti. Non a caso Donna Maria, una romana Claudia Gerini con un sorprendentemente credibile accento napoletano, è molto appassionata di cinema: nel covo che ha fatto costruire per il marito, una panic room «come quella del film con Jodie Foster», conserva gelosamente scaffali di DVD di vario genere. Conosce a memoria tutte le battute delle più celebri romcom americane, che divora quotidianamente sul televisore del suo salotto; colleziona modellini delle automobili utilizzate nelle più famose saghe cinematografiche di Hollywood, dalla Aston Martin di Missione Goldfinger alla Delorean di Ritorno al futuro; suggerisce al marito, uno strepitoso Carlo Buccirosso, di fingersi morto seguendo il plot di un altro episodio della saga di James Bond. Per non parlare delle sequenze di ballo e canto, che rimandano inevitabilmente a decine di musical americani, due delle quali cantate addirittura in lingua inglese – una delle due, peraltro straordinaria, girata sotto le vele di Scampia con dei turisti americani che ballano e cantano, appena scippati, sui luoghi di Gomorra.
È proprio il mondo raccontato dal romanzo di Saviano – diventato poi un vero e proprio universo da esportazione grazie al film di Garrone e, soprattutto, alla serie di Sollima – a rappresentare il referente principale. I Manetti tentano la difficile operazione di decostruire il mito di Gomorra e di quello che potremmo definire come “gomorrismo”, fenomeno che negli ultimi anni ha notevolmente influenzato l’immagine dell’Italia, e degli italiani, soprattutto nei paesi anglo-americani, ovvero dove le opere in questione hanno avuto maggiore successo.
Lo strumento principale che i registi utilizzano come rimando è il personaggio di Rosario, interpretato da Raiz, leader della band trip-hop napoletana Almamegretta, che sembra proprio uscito dall’universo di Gomorra. Se i restanti personaggi sono tutti definiti con sarcasmo, ironia e disincanto, Rosario è l’unico che crede realmente nella fedeltà ai “valori” camorristici. È un soldato fedele, in attesa di promozione, esattamente come ci hanno abituato buona parte dei protagonisti del mondo di Gomorra. La decostruzione di questo immaginario può dirsi compiuta con un cortocircuito: nella sequenza dell’agguato a Ciro, quando cioè rimane un solo camorrista con un mitra in mano, ci accorgiamo che si tratta dell’attore Ciro Petrone, che aveva già interpretato il personaggio di Marco nel film di Garrone, giovane con ambizioni malavitose che sparava nel vuoto, sulle rive del fiume, assieme al suo amico Ciro, proprio con un mitra, imitando il Tony Montana di Scarface. In Ammore e malavita, consci della potenza immaginaria di quella sequenza, i Manetti ridicolizzano il suo personaggio: di fronte al nuovo Ciro che lo accusa di non saper sparare, il ragazzo getta l’arma a terra e fugge via piangendo.
Non basterebbe, tuttavia, un’intera recensione, probabilmente, per rintracciare e citare tutti i rimandi, più o meno palesi, al cinema di genere italiano, ai mafia movie o ai film gongfu o polizieschi dell’estremo oriente, così come a quelli più espliciti, già citati, al cinema hollywoodiano. Seppur sia ben radicato all’interno dell’immaginario criminale e cinematografico cui fa riferimento, Ammore e malavita si impone dunque come un film a se stante, che assumendo un punto di vista coraggioso e originale strizza comunque l’occhio alla cinefilia di genere, ma adottando, contestualmente, un respiro vitale apertamente popolare. Che sia, quella tracciata dai Manetti, una delle possibili strade da percorrere per poter finalmente uscire dall’appiattimento dello sguardo sul mondo che caratterizza buona parte del cinema italiano visto anche quest’anno al Lido?