La scomparsa di Eleanor Rigby - Lei
La storia di Eleanor e Conor è un melodramma che trae linfa vitale dalla rottura di schemi e assiomi narrativi della settima arte.
L’esperimento di Ned Benson, regista di La scomparsa di Eleanor Rigby (2013), è uno dei più ambiziosi: ridiscutere il formato del cinema e scuoterlo dalle euristiche e gli automatismi dei suoi prodotti e del formato principe del lungometraggio “medio”. Raccontare una storia speculare, da due punti di vista diversi, in due film distinti è un gioco cinefilo ambizioso e rischioso, un gambetto di re non meno difficile da maneggiare di un film-fiume di diverse ore o di un cinema seriale à la Decalogo di Kieslowski. Il re, in questo caso, è il regista.
La storia d’amore tra Conor (James McAvoy) ed Eleanor (Jessica Chastain) è un dramma, in fondo, convenzionale: la morte del figlio ha diviso i due amanti e sposi, e due diversi approcci alla vita ed al lutto allontanano le traiettorie dei due. Entrambi riscoprono un’identità individuale al di fuori dello strappo, dolorosissimo, dall’identità collettiva della coppia consolidata: genitore, amante, parte di un progetto di vita più grande. Nel caso di Her, è ovviamente lo sguardo di Eleanor a guidare lo spettatore. Quello di Eleanor è, a tutti gli effetti, uno sguardo senza punto di fuga, senza prospettiva: spossessata di sé, la giovane donna cerca disperatamente un nuovo assetto dal quale ricominciare da capo, tra vecchi progetti giovanili interrotti e un rapporto non risolto con i genitori e, in particolare, con la madre (Isabelle Huppert). Seguendo il suo vagare e rimbalzare da uno stimolo all’altro, da un’incertezza all’altra, il film traccia un percorso a spirale che fino all’ultimo pare senza uscita. Il passato è presente e ingombrante, tanto che i numerosi flashback sembrano avere maggiore consistenza e coerenza rispetto ad un qui ed ora lacerato e instabile. Il passato è la poesia, le lucciole e le corse in macchina fino al termine della notte; il presente, la prosa arruffata e ruvida del reale.
Quello che funziona, nel progetto di La scomparsa di Eleanor Rigby, è la radicale diversità di prospettive e, in parte, di genere cinematografico. La storia di Eleanor è un melodramma delle emozioni, dove romanticismo e ricordi sono amplificati fino al parossismo; nel caso di Lui, la narrazione si concentra sul tentativo di Conor di comprendere le ragioni di una separazione improvvisa e di una perdita di contatto con la compagna di una vita. Due storie speculari, forse anche troppo (alcuni personaggi sembrano ricoprire esattamente lo stesso ruolo narrativo, nonostante il contesto e le implicazioni siano ben diverse), ma tale è il desiderio di sciogliere i nodi della storia che, a conti fatti, i limiti dei due film si lasciano facilmente perdonare.
La scomparsa di Eleanor Rigby è un film che, nonostante una scrittura non sempre ispirata, è capace di sedurre con immagini di grande fascino e con la continua sfida allo spettatore: ricordare, confrontare, aggiungere e dividere. Memoria e regia selettiva portano alla luce una storia che, complice il formato fresco e due interpreti di grande talento, funziona e appassiona. Il gambetto sembra riuscito e lo spettatore, attivato dal gioco di specchi e di domande, si lascia coinvolgere da una forma capace di dare nuovo respiro a contenuti vecchi quanto la storia dell’uomo (o, almeno, la storia del cinema).