La sedia della felicità è diventato, con sommo scoramento di tutti, l’ultimo film di Carlo Mazzacurati: uno dei cantori più originali del particolare, sia detto senza piaggeria post mortem, del cinema italiano contemporaneo. Pochi registi come lui sono stati capaci di attaccarsi a una porzione di territorio, nel suo caso il nord-est italiano, raccontandone contraddizioni e umori con quella abilità straordinaria di mettere nitidamente a fuoco le cose anche a partire da impianti narrativi deboli e fragili, talvolta anticonvenzionali anche nell’affrontare un abbozzo di cinema di genere (La giusta distanza, in tal senso, era uno dei film più significativi degli anni zero, per come flirtava col noir e col thriller investigativo). Lo sguardo di Carlo Mazzacurati era quello antropologico e poetico insieme di un cineasta innamorato dell’ordinario e del vero, di tutto ciò che rifiuta di porsi sullo schermo in modalità artefatte. Negli ultimi anni però, come i suoi sceneggiatori confermano, si era un po’ schiodato da questa linea di pensiero, o almeno aveva iniziato a farlo. Aveva infatti cominciato ad appassionarsi al cinema americano più stilizzato, ai Coen e a Wes Anderson (questo film deve molto a Fantastic Mr. Fox), dopo anni e anni di realismo perseguito con oltranzismo totale. Quest’amore tardivo per personaggi estremamente bidimensionali, più strampalati e bizzarri come nel più recente La passione, nel suo ultimo lavoro si respira a pieni polmoni. E anche se La sedia della felicità è un film ben distante dall’essere completamente riuscito, non si può non riconoscere la vitalità colorata e atipica di un uomo e di un artista ben disposto a rinnovarsi stilisticamente, ad avventurarsi in un terreno – quello comico-umoristico – dal quale nella prima parte della sua carriera era stato ben più lontano.
Il nord-est rimane però una costante inviolabile, anche in questa variante cartoonesca del suo cinema, in cui i personaggi sono vettori del sentimento del mondo del regista, un sentire votato al concetto di buffo, a una favola sociale popolata da extraterrestri e macchiette. Valerio Mastandrea e Isabella Ragonese sono un tatuatore e un’estetista – due mestieri tutti di pelle, di superficie, simboli di una terza dimensione assente nelle loro vite come nell’ambiente circostante – alle prese con un road movie un po’ fuori di testa, in cui c’è una sedia da ritrovare con una ricca ricompensa al suo interno, una fortuna connessa a una lauta eredità. Difficile immaginare un assunto di base più fiabesco di questo: la caccia al tesoro di un Graal pagano che fa da motore a situazioni paradossali nelle quali i protagonisti incapperanno in un variegato campionario umano. Un’umanità, se ci si pensa bene, non meno paradigmatica rispetto a quell’estremità d’Italia che Mazzacurati ha sempre raccontato. Solo che qui quel tipo di affresco è incrociato in forma più indiretta, meno usuale, in una storiella allegorica fatta di metafore elementari come in un libro illustrato per bimbi. Un film che trasuda levità da ogni poro, che scontorna i suoi personaggi apparentandoli al fumetto (come ne Il comandante e la cicogna di Silvio Soldini, co-sceneggiato anch’esso da Doriana Leondeff), ma dal quale viene fuori ancora una volta una comunità solare e diffidente, generosa più di quanto si sia portati a pensare ma anche scorbutica e disgraziata (il prete strozzato dal videopoker, le grossolane televendite). Come ci tiene a sottolineare la moglie Marina, La sedia della felicità non è un’opera postuma di Carlo Mazzacurati. E’ piuttosto una fatica portata a termine con la freschezza e la grande maturità di un regista cui andava di sporcarsi le mani con l’infantilismo sano del gioco, della ronda istrionica e magari implausibile ma comunque di gran sincerità, attaccata al cuore allegro delle cose. In un film così non possono non esserci tutte le ingenuità e – perché no? – le derive (il finale in montagna è un pastrocchio, e l’orso posticcio è delirante) di un artista pronto a misurarsi con se stesso, non lasciandosi avvilire dalla malattia che l’affliggeva e non disponibile a scendere a patti con essa; un autore a misura d’uomo e di paesaggio, la cui lente sulla realtà e i suoi molteplici filtri non potranno che mancarci. La sedia della felicità forse è il film-testamento di un cineasta baciato dalla leggerezza o forse no, non importa. Quel che più interessa è che si tratta di un film simile alla pentola d’oro che appare sotto l’arcobaleno, il manifesto poetico ultimo, svagato e lunare di un regista ancora propenso a guardare il mondo ad altezza di bambino.