La stanza delle meraviglie
Dopo il bellissimo "Carol", Todd Haynes cerca la meraviglia ma non sa dare stupore.
In Carol Todd Haynes filmava l’amore in una New York anni Cinquanta (ricostruita, in realtà, nella città di Cincinnati, Ohio), tornando così a tempi e umori sociopolitici e privati che erano stati anche quelli di Lontano dal paradiso. Aveva incontrato una lei e un’altra lei nel romanzo del ’52 The Price of Salt, di Claire Morgan (tra gli svariati pseudonimi di Patricia Highsmith), e aveva fatto del sentimento tra Therese e Carol un grande film. La stanza delle meraviglie (Wonderstruck), prodotto da Amazon, parte dall’omonimo (sia nell’edizione originale che in quella italiana) romanzo grafico di Brian Selznick, autore anche della sceneggiatura, e torna a New York. Ancora a una coppia, ma che non sa di esserlo, divisa: un ragazzino del Minnesota del 1977 e una ragazzina del New Jersey di cinquant’anni prima. Cinema americano seventies, d’atmosfera scorsesiana, e cinema muto; colore e bianco e nero; transizioni e incastri tra silenzio e voce.
Ben (Oakes Fegley) ama sua madre, una bibliotecaria (Michelle Williams); ama lo spazio e le stelle, non ha mai conosciuto suo padre e lo immagina astronomo; sogna lupi e ne ha paura. Un giorno la donna muore in un incidente stradale, poco tempo dopo un fulmine priva Ben dell’udito.
Rose (Millicent Simmonds) guarda invece alle stelle del cinema, perché tra quelle c’è sua madre (Julianne Moore, interprete anche di Rose adulta), che non vede quasi mai se non come fantasma dentro lo schermo di una sala; è sorda Rose (come l’attrice cha la incarna) e sola, con un padre severo che non la comprende. È il 1927, scappa a New York; mezzo secolo dopo lo farà anche Ben.
Una Upper West Side del’77 ricostruita tra Bedford-Stuyvesant e Crown Heights; una chiesa quasi nascosta allo sguardo, trasformata in Promenade Theatre: l’anno (e l’estate) dell’incredibile blackout in città e quello del Cantante di jazz di Alan Crosland. La città ora infinita, ora miniaturizzata. La fotografia di Ed Lachman, le scenografie di Mark Friedberg, le musiche di Carter Burwell. Due epoche, due vite, due storie piccolissime, ma anche due storie del mondo se vogliamo, e poi l’incontro. Il Museo di Storia naturale in cui ritrovare il tempo e lo spazio, il sentimento, la realtà e un’origine nella meraviglia.
È un film ambizioso, Wonderstruck, cerca l’emozione nel nostro oggi anaffettivo ma non gli interessa essere attuale, e questo non perché racconti storie coniugate al passato; è un film gentile, perché gli interessa la tenerezza e tenta di restituirla; è un film che cerca di unire il particolare e la pienezza, i fantasmi e le vite, le cose, trasformando, infine, l’esistenza in diorami, in gioco e malinconia. Ben e Rose attraversano la vita e il cinema, l’assenza dei padri, delle madri, dei suoni, delle parole. La stanza delle meraviglie fonda il racconto di formazione su questa assenza, sulla perdita e sulle paure. Sono personaggi che si perdono, che hanno paura, sono puntini in una geografia reale e irreale, una cartina immaginaria e una città che non conoscono. Il montaggio mette continuamente in dialogo le traiettorie, toglie al viaggio, alla fuga, il lirismo, e dà all’approdo lo smarrimento. Ma a mancare è una levità – che può esserci anche nel dolore, nella solitudine, nel lutto –, un qualcosa che sfugga alla tecnica e alla scrittura, alla manualistica su eroi ed eroine, manca una vera sfuggevolezza, vaghezza, quella meravigliosa leggerezza, ad esempio, che era dell’Hugo Cabret di Scorsese, anch’esso di base fantastica selznickiana. E se lì il maestro italoamericano rendeva invisibile e azzerava strepitosamente il peso della macchina cinema conservandone però l’incanto e i prodigi, nella Stanza delle meraviglie è proprio la sottolineatura insistita e didascalica degli eventi, dei sogni, delle verità, dei traumi e delle scoperte a sacrificare, in parte, l’elemento wonder e a dare così al film incompiutezza e una sostanziale staticità, quando invece è proprio nel movimento che mirava a trovare la sua essenza, la verità delle sue creature.