La vita oscena
Renato De Maria adatta l'autobiografia di Aldo Nove in un film insieme ambizioso, affascinante, deludente e fallimentare

Ci vuole coraggio. Scrivere, realizzare e presentare alla Mostra del Cinema di Venezia un film come La vita oscena di Renato De Maria richiede un grado di follia e di gioiosa incoscienza che non può non destare curiosità. Nel panorama dell’industria cinematografica italiana sono sempre più rare operazioni fuori da ogni schema come questo viaggio fantasioso e autobiografico nella vita dello scrittore Aldo Nove.
La maggior qualità del lavoro di De Maria sta nel suo volersi interrogare su quali siano le coordinate estetiche, produttive e narrative parzialmente dominanti nel cinema contemporaneo, e nel suo tentativo di fornirne una declinazione assolutamente personale (verrebbe da dire italiana se il film non fosse del tutto alieno al resto della cinematografia nazionale). Gli ovvi modelli che vengono in mente guardando La vita oscena sono gli ultimi approdi a film-laboratorio di David Lynch o Terrence Malick, alle loro dinamiche produttive dal basso, alle costruzioni basate sul libero accostamento di frammenti, alla perdita della centralità della sceneggiatura a favore di un approccio dove il film è costruito e inventato al montaggio. Ma l’opera che più torna in mente (o che vorremmo tornasse in mente) davanti a La vita oscena è Spring Breakers di Harmony Korine. E’ con un film simile che sembrava poter dialogare il lavoro di De Maria, con la capacità di Korine di saper tessere una vertiginosa apologia della superficie contemporanea, oltre la quale possiamo scorgere esclusivamente il nulla assoluto: dietro i corpi di Spring Breakers, dietro la loro ricerca di divertimento, sesso e droga non vi è la volontà di dare forma a presunti malesseri personali o generazionali, sono solo segni e forme gioiosamente autoreferenziali. Il problema di La vita oscena è situato proprio in questo scarto: passi il suo a tratti interessante apparato visivo, un frullato divertente di underground statunitense, cultura del videoclip e surrealismo pubblicitario, ma quello che lascia perplessi è quanto sia invadente e ingombrante l’apparato narrativo, culturale, sociale che si vorrebbe dietro ogni singola immagine.
Lo spunto narrativo trovato da De Maria è l’autobiografia di Aldo Nove (qui ribattezzato Andrea e interpretato dal bravo Clément Métayer), la morte di entrambi i suoi genitori quando era ancora adolescente, il suo sprofondare nella depressione e nel desiderio di testare droghe e esperienze sessuali di ogni tipo. Un percorso di avvicinamento alla morte dal quale il protagonista uscirà grazie all’amore per la scrittura e la poesia. I limiti di La vita oscena sono tutti qui, in un racconto che costringe la curiosità visiva del regista in una struttura che finisce col somigliare all’ennesimo parallelismo tra pulsioni di morte e sensibilità artistica, dove la redenzione finale deve passare automaticamente per un viaggio in un inferno di ossessioni personali.
L’impressione generale è quella di un film mosso da due anime distinte e conflittuali tra loro: da una parte la curiosità e la sensibilità visiva di Renato De Maria, la sua ammirevole ostinazione (ben supportata dalla fotografia di Daniele Ciprì) nel voler percorrere una strada poco frequentata dal recente cinema italiano; dall’altra il desiderio di raccontare una storia inficiata da troppi luoghi comuni sul maledettismo artistico e sulla ricerca compulsiva e vagamente modaiola di droga e sesso. Come se una forma, istintivamente alla ricerca di una sintonia con i modelli del cinema contemporaneo, fosse rimasta ingabbiata a schemi e strutture che il cinema e la letteratura hanno reso obsoleti da almeno trent’anni (il senso di colpa per la morte dei genitori, Isabella Ferrari come mamma gigante sulle facciate dei palazzi, il facile binomio sesso e dolore di un rapporto sadomaso).
Una dicotomia evidente anche sul piano stilistico, con l’alternanza fin troppo marcata tra momenti visivamente liberi (caratterizzati da colori acidi, camera a mano, grana dell’immagine) e la staticità di altri, con il pieno utilizzo del formato 2.35:1 in totali dedicati ai momenti maggiormente narrativi.
La messa in scena di De Maria, con tutti i suoi limiti di ridondanza e kitsch, ci mostra un talento dotato di un’innegabile forza e La vita oscena resta in ogni caso un oggetto difficile da catalogare, un piccolo strambo film meritevole di considerazione. A pensare una cosa del genere, oggi, in Italia, ci vuole davvero coraggio.