A Lady in Paris, titolo che sembra una brutta e ammiccante variante dell’originale Une estonienne à Paris, è uno di quei film timidi e deferenti che nel loro minimalismo oltranzista possono sembrare quasi poveri e deficitari. Giostrati su rimbalzi e su dettagli, su sfumature che richiedono attenzione e dedizione da parte dello spettatore e che quindi lì per lì rischiano di trasmettere un senso di irritazione e incompiutezza alla lunga difficilmente tollerabile. In realtà ad alimentare film così vi è talvolta un esile lumicino che pur non brillando di luce propria e non accecando con la sua bellezza è lì che vive ed esiste, anche se flebilmente.
Ed è proprio questo il caso del film di Ilmar Raag, insignito del premio ecumenico dal Festival di Locarno (kermesse però che negli anni ha finito col contare sempre meno nello scacchiere dei palmarès internazionali). Un’opera estremamente raggomitolata su se stessa esattamente come la protagonista Anne, giovane badante estone chiamata a Parigi per accudire l’intrattabile Frida, anziana signora anch’ella di origine estone con alle spalle dei recenti tentativi di suicidio. Due personalità sideralmente opposte che però si troveranno in qualche modo a convivere l’una con l’altra, avvinghiate nella loro comune solitudine: da un lato Frida, che non riesce a sopportare il peso degli anni che passano e l’atonia inerziale dell’età avanzata, e dall’altro Anne, che la vita invece non l’ha mai davvero presa a morsi e che in tale incorporeità sospesa lascia trascorrere i suoi giorni grigi e mesti. Straniere in una terra altrui percepita sostanzialmente come ostile, come altra da sé, ovattata ma non per questo accogliente. Due diversi tipi di vacuità accomunati da svariati punti di contatto, due pallori umani che la regia prova a cogliere nell’atto di contaminarsi l’uno con l’altro sostenendosi a vicenda, quasi a suggerire un rapporto matriarcale mai davvero raggiunto e per altro assai a lungo esplicitamente rinnegato da una delle due parti in causa. Nel farlo lo sguardo di Raag assume qua e là una dimensione che si potrebbe definire quasi cronachistica e clinica (il regista non a caso è un giornalista affermato in patria), che annega in un biancore attenuato e smorzato a tal punto da risultare a tratti impalpabile. E’ il rischio concreto di un preciso approccio estetico-morale, che tentenna costantemente, che non si fa mai incombente o assillante ma piuttosto preferisce eclissarsi un attimo prima che sopraggiunga l’apice emotivo. Sempre in punta di piedi, col dovuto rispetto, senza mai alzare la voce.
Una scelta precisa, che di sicuro nega buona parte dell’empatia dello spettatore compromettendo l’esito complessivo ma che non per questo si limita a traghettare il film in un anonimato di ombre taciute e nebbioline intirizzite. Lasciando sullo sfondo ogni approfondimento sulla differenza di classe delle due donne e dunque anche sulla società baltica trapiantata all’estero, il gelo impenetrabile si scioglie infatti molto spesso in calore ristoratore, familiare e doloroso come un vecchio amore che non si riesce più a stringere a sé con la stessa intima vicinanza di un tempo, tanto a livello sentimentale quanto sessuale. Si veda, a tal proposito, la scena in cui la Frida di Jeanne Moreau accenna un contatto fisico abbastanza spinto col suo giovane amante di molti anni prima che le è rimasto vicino nella vecchiaia, senza però potere o volere andare troppo oltre. Una sequenza che riassume la dolente consapevolezza di un disfacimento fisico cui è impossibile rassegnarsi, soprattutto per una vecchia bizzosa che non ha smesso di far ardere il fuoco bruciante della sua passione per la vita. Un personaggio incarnato con classe riottosa dalla Moreau, un nome che è sinonimo di cinema scolpito nella leggenda, un’interprete maestosa e indimenticabile. Quella che per Orson Welles era la più grande attrice di tutti i tempi si lascia avvolgere dal suo personaggio in modo totale, prestando ogni cosa di se stessa a un ruolo che è praticamente ricamato su di lei. Con quel divismo crogiolato a pervaderla in ogni ruga, proprio di chi sembra avere l’aria di essere nata per farsi inquadrare avvolta in un panno bianco e con uno specchio accanto che ne riproduca l’immagine. E poi quello sguardo, quegli occhi enormi simili a due lastre di ghiaccio o a due serpenti guizzanti, nerissimi e fissi nel vuoto con un’espressione che sembra perennemente scrutare nell’abisso: una fermezza tale che osservando attentamente la Moreau ti sembra di poter ancora scorgere la stessa animosità saettante della ragazza di Jules e Jim. Tutti aspetti che convivono organicamente dentro un unico personaggio, il quale nonostante l’eccesso recitativo della Moreau sia talvolta in agguato possiede una grande verità, un’autonomia fiera, una forza inattaccabile barricata dietro gli addobbi di gioventù (“Amo troppo il mio corpo per fracassarlo al suolo”).
“Ogni volta che me la immagino a distanza la vedo che legge non un giornale ma un libro, perché Jeanne Moreau non fa pensare al flirt ma all’amore”, disse di lei François Truffaut. E anche qui la sua figura di donna trasuda di un amore donato in misura talmente eccessiva da averla consumata, costringendola a costruirsi addosso una scorza di cinismo. Un sentimento di asprezza che accompagna anche la reunion con dei vecchi amici che prevedibilmente si conclude malissimo, con un adulterio di Frida che ritorna a galla nella conversazione (una scena che sembra una costola in nero del Quartet di Dustin Hoffman) e la cordialità che si sfalda ben presto. A dispetto di quanto si possa pensare, Jeanne Moreau però non fagocita il film in un sol boccone. La più giovane badante Anne non è infatti personaggio che svanisce nel dimenticatoio ma regala anch’esso spunti interessanti: una sorta di donna angelo tipica dei freddi del cinema nordico, asessuata e virginale, in piena contrapposizione dicotomica con Frida, assai vicina nei modi e nel portamento alla Bess di Emily Watson ne Le onde del destino. E’ lei, in fondo, il vero vincolo con il paesaggio urbano parigino, con le sue infinite passeggiate finali degne delle lunghe cavalcate a piedi della stessa Moreau in Ascensore per il patibolo di Louis Malle. E l’immagine di Anne che si stringe nelle spalle infreddolita addentando un cornetto ai piedi della Tour Eiffel è uno squarcio di solitaria poesia difficilmente dimenticabile.