Uno tsunami devasta le coste giapponesi danneggiando una centrale nucleare. Gli abitanti della zona, memori degli avvenimenti di Fukushima, si mettono in allarme. In breve un gruppo di uomini, intabarrati in ingombranti tute di protezione, posiziona un nastro giallo accanto alla casa della famiglia Ono. La fascia di venti chilometri attorno alla centrale, considerata contaminata, termina infatti appena prima dell’edificio.
Mentre i vicini sono costretti in fretta e furia ad abbandonare la loro casa, lasciando perfino il cagnolino legato al cancello, i coniugi Ono, con il figlio Yoichi e la nuora Izumi, restano perplessi a guardare, consapevoli però che l’assurda tragedia che stanno per vivere è solo all’inizio. Stoico e sempre lucido, il vecchio Yasuhiko Ono rifiuterà l’ordine – che comunque a breve arriverà – di lasciare la sua terra, dove ancora crescono gli alberi piantati dai suoi avi. Il suo intento è anche quello di proteggere la moglie Chioko, che la malattia mentale ha reso fragile e inconsapevole come una bambina, e che non sopporterebbe di vivere in un luogo sconosciuto. Nel mentre però Yasuhiko costringe i giovani Yoichi e Izumi a partire, ben cosciente del silente e insidioso veleno che ammorba l’aria che li circonda. Più tardi, in un’altra città, la giovane donna scoprirà di essere incinta in un mondo in cui ogni oggetto è contaminato dalle radiazioni, mentre tutti si ostinano a negare l’evidenza dei fatti nel disperato e illusorio tentativo di vincere la paura. Nel mentre, il figlio dei vicini di casa degli Ono accompagna la sua fidanzata in motocicletta lungo la costa innevata, alla ricerca dei genitori di lei tra le macerie e i rottami che lo tsunami si è lasciato dietro.
Il regista giapponese Sion Sono descrive, in The Land of Hope, uno dei più grandi incubi della nostra epoca, l’inquinamento radioattivo. All’opposto di un certo tipo di cinema che ama mostrare gli aspetti più roboanti e violenti delle catastrofi naturali, Sono sceglie un tono elegiaco e sommesso in cui i silenzi si fanno gravidi di attese e cattivi presagi, e il mondo intero, stretto nella minaccia di un nemico invisibile e mortale, sembra disfarsi lentamente in una tetra, angosciosa immobilità. Non vediamo inondazioni, edifici che crollano o che esplodono. Solo un cupo, breve rombo, attutito dalla lontananza, suggerisce il sopraggiungere della catastrofe, ma rapidamente, mentre le autorità e la televisione mentono clamorosamente, tutti si rendono conto dell’enormità di quello che sta accadendo. L’implosione della civiltà tecnologica e industriale, le menzogne massmediatiche, la follia del quotidiano in un mondo prossimo all’autodistruzione sono qui rapportate alla dimensione tutta privata di una serie di personaggi che combattono come possono il loro dramma. Insieme a quello dell’inquinamento ambientale, molti sono i temi che il film riesce a orchestrare in una efficace armonia: il rapporto padre figlio, il rapporto di coppia, l’attaccamento alla terra e alle tradizioni. Lo stesso disastro ambientale è inquadrato anche nelle sue coordinate psicologiche (la cosiddetta radiofobia) e sociologiche (pensiamo alle scene di intolleranza contro i presunti “radioattivi”).
Estremamente poetiche ed eloquenti sono poi le sequenze ambientate nelle zone offlimits, quelle contaminate, dove la polizia non permette l’accesso e tutto sembra essere pietrificato in una dimensione senza tempo. E’ qui che, tra gli scheletri degli edifici distrutti, si aggirano due inermi bambini alla ricerca di un vecchio disco dei Beatles. Ed è ancora qui che si perde Chioko: passeggia tra le strade deserte, dove vagano mucche e capre abbandonate al loro destino, vestita a festa con il suo kimono a fiori in cerca di un corteo danzante che è ormai solo nella sua immaginazione. In questi passaggi, come anche nelle scene in cui Izumi si costringe in una soffocante tuta da astronauta nel tentativo quasi paranoico di proteggere il figlio che porta in grembo, Sono racchiude la vastità e la profondità dell’abisso che la catastrofe ha scavato attorno ai personaggi. La sua penna lieve e al contempo decisa, il suo sguardo commosso e insieme asciutto fanno di The Land of Hope uno dei più validi film su un argomento spesso dibattuto ma raramente affrontato con tanta efficacia, attraverso un approccio poetico, estremamente sobrio e tuttavia a tratti struggente.