Le due verità

Paul Schrader, tra mélo e thriller, kitsch e angoscia per un cinema “terminale”

Un’attrice cresciuta sui set di Woody Allen e Abel Ferrara; un attore sulla scia del successo ottenuto da Shakespeare in Love. Insieme, in un film che sta tra Affliction e Auto Focus, due capitoli chiave della poetica schraderiana, e che forse non si sarebbe potuto collocare diversamente; chiamato Forever Mine e diventato in Italia, direttamente in home video, Le due verità (in omonimia con – sempre qui da noi – un romanzo di Agatha Christie, in originale Ordeal by innocence, e, ancora, con un film del 1951 diretto da Antonio Leonviola). Ma, si sa, non è questione di banale, didascalica ambiguità il cinema di Paul Schrader, non si tratta di significati che scorrono separati e paralleli, bensì sono collisioni insanabili a sedimentarsi, come in una tensione violentissima sempre tra vivere e morire, forze oppositive che nascono dalla stessa sorgente, realtà e proiezione che si confondono, paura e desiderio, incanto e annichilimento di sé, autoinganni e lacerazioni. “Per sempre mia”, Forever Mine – promessa d’amore eterno in fiaba allucinata ed esacerbata fino al suo rovesciamento, mappatura del sentimento tra il mélo e il lato oscuro del cinema di questo autore, fusionalità potente di rosa e noir – plasma e riplasma questo cinema, lo doppia, lo sdoppia, lo moltiplica. Perché il desiderio, per il regista americano, è sempre a contatto con la morte, è sempre il principio della fine. E qui, ne Le due verità, lo strazio e l’accesso negato, vagheggiato, bramato per quattordici anni, al corpo, all’oggetto della propria devozione, insieme alla voglia di vendetta, è territorio necessariamente terminale, è uno scacco, un dominio da cui è impossibile sfuggire.

Alan ed Ella (Joseph Fiennes e Gretchen Mol). Lui lavora come cameriere di spiaggia in un hotel di Miami, lei è una giovane moglie infelice, nata povera, educata dalla suore, arrivata in vacanza da New York con suo marito Mark (Ray Liotta), uomo d’affari in importante crescita. Si incontrano e si amano. È il 1974. Si separano, lui la raggiunge nella sua città, continuano a volersi, lei è sogno e senso di colpa, si confessa in chiesa e a suo marito. Che dapprima riuscirà a incastrare Alan per droga e poi, con un altro stratagemma, a coinvolgerlo in un’evasione di detenuti per farlo assassinare dai suoi uomini. Alan sopravvive – mentre tutti, tranne il suo amico Javier (Vincent Laresca), crederanno il contrario – ma resta sfigurato; chirurgia plastica e una nuova identità lo trasformano in Manuel Esquema, specialista di traffici bancari. Passano molti anni e i guai con la giustizia di Mark lo portano a contattare Manuel, che può aiutarlo…

È «l’assolutezza come ossessione, la purezza come condanna, il donarsi come dannazione. […] Doppio corpo fantasmatico,vero e proprio uomo che visse due volte, Alan Riply si annulla letteralmente nella passione che proietta su Ella e insiste sino allo stremo nel nutrirla nel segno di un’assolutezza che non conosce ragioni perché spiega tutto in se stessa. […] Schrader pone il protagonista in una storia (d’amore) che lui stesso determina, cerca, scrive, ma dalla quale è destinato a essere prima rifiutato, poi risucchiato, dunque annullato e infine santificato»[1].

È l’opera di Schrader più vicina, per certi versi, a Il bacio della pantera, a quell’horror che nel 1982 è remake del film omonimo di Torneur di quarant’anni prima; è l’opera più lontana dai The Canyons che verranno (in realtà entrambe le storie, le forme, sono in assurdo, deformato, reciproco riflesso). Forever Mine, allora: mentre il tempo è una trappola, è un attrito angoscioso, è quello perduto e da ritrovare; e così la passione e l’assenza si aggirano in un flashback lungo un viaggio in aereo tra i cieli del presente, in una prima parte dall’andamento kitsch, estremizzato, smaccatamente “finto”, a cui collaborano e danno forma parossistica le musiche di Angelo Badalamenti e l’occhio di John Bailey. Oggi, a New York, anni Ottanta, seconda metà, Schrader si inventa “un altro” film, più cupo, più disperato, tragico. E l’inquietudine del regista è – come sempre – quella dei suoi personaggi, risiede nei loro corpi, nel gesto, nel volto che muta (lui) o che resta lo stesso (lei), si inscrive nel sesso che disegnano come i protagonisti adulti di un’adolescenza a cui tornare o che mai hanno “posseduto” o “ricordato”. Forever Mine, non lo è, ma sembra la risposta a Showgirls di Paul Verhoeven: due opere-tempo, due “documentari” senza esserlo, inseriti nei meccanismi topici dei generi, dei racconti, delle parabole, delle storie americane, della cadute e rinascite, delle fughe e dei ritorni. Entrambe terminali, entrambe spudorate nella loro imperfezione, improbabilità, sottilissima complessità. E forse sì, allora, inizio e fine, a pensarci bene, sono davvero le “due verità” di Schrader, il suo cinema più vero, eterno.

[1]: Massimo Causo, Sporchi della loro purezza. Detective, maghi, santi laici, passionari ed esorcisti nel cinema di Paul Schrader, in Alberto Castellano (a cura di), Paul Schrader. Il cinema della trascendenza, Mimesis, Milano – Udine 2016, p. 57.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 24/11/2017

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