Le ultime cose

Tra l'esistenza e le ultime cose

Ogni oggetto è l’àncora di una storia da raccontare che s’incaglia sul fondo di un mare (esistenzialmente e moralmente) mortifero; è il detrito che rimane e che consente di sopravvivere all’oblio della sua narrazione. L’oggetto è un’esistenza che continua ad essere come un simbolo della vita di chi l’ha vissuto. E’ il principio e la fine della storia del suo possessore. E’ un’ultima cosa, la più importante, la più significativa, la più loquace. Tra la logica dell’efficienza fruttifera del banco dei pegni si pensa mai al valore affettivo, allo storytelling umano, che l’oggetto stesso può avere, o aver avuto, per il disperato possessore che arriva a privarsene?

Le ultime cose di Irene Dionisio si pone al centro di questa traiettoria, definendo attraverso un nodo finzionale le esistenze che ruotano intorno al luogo del pegno, della trattativa. Un non luogo della pietà dove l’affetto viene prima quantificato per essere riscattato o messo definitivamente all’asta. E’ dietro quel vetro e quelle sbarre della primissima inquadratura che ci appare, per primo, una periferia dell’umanità, dove delle ultime persone sono pronte a vendere le loro ultime cose. Il nodo scopico tessuto dalla Dionisio ci mette immediatamente di fronte ad una realtà divisa, da un dentro e da un fuori, e l’occhio si rivela essere posizionato su di un confine destabilizzante, uno sguardo che sembra restringere la realtà dentro a delle sbarre di ricollocamento, dentro ad una gabbia per un’umanità in debito di ossigeno, nell’impossibilità infine di definire la semantica dell’interno ed esterno, della costrizione e della libertà. Da questa prima immagine la verità inizia a costruirsi come una narrazione di finzione altamente verosimile. Ed è sulla verosimiglianza, e sulla capacità di messa in scena del reale, che s’instaurano i paragoni con i maestri del nostro neorealismo. Termine questo però sempre più necessario, e forse inutile, all’osservatore critico per definire i contorni di un film dentro ad una classificazione del già conosciuto, come una rassicurazione esterna più per il filologo che per l’analista. Un’opera quindi fin dal principio liminare, sospesa tra il documento e la ricostruzione, imperfetta nella scrittura drammatica come un’opera aperta tendente alla definizione in itinere della sua narrazione, ma non certo della sua identità. L’identità è il fil rouge che la regista tende nel suo continuum filmografico dove sono gli oggetti e le storie che raccontano a determinarne il percorso. Se in Sponde, film documentario del 2015, la distanza che separa le due sponde (Lampedusa e Tunisia) è riavvicinata sia dal rapporto epistolario tra Vincenzo Lombardo e Mohsen Lidhabi sia attraverso gli oggetti di recupero, i detriti di una Storia tragica che ogni anno si ripete nel mediterraneo, qui l’oggetto diventa un tesoro personale, l’incipit di una storia propria, e se lo si abbandona è pur sempre per una morte sociale (ma qui non fisica) e morale. Ed è su questa distinzione che possiamo riscontrare una differenza tra i due lavori che è allo stesso tempo una continuità d’argomentazione. Questo quesito si instaura tra la differenza del tutto sartriana tra il livello percettivo dell’oggetto e l’immaginazione dell’oggetto. Se nel primo caso (Sponde) l’oggetto porta con se l’immaginazione che il ritrovamento può suscitare nel racconto della sua identità e di conseguenza nell’identità del suo possessore morto in mare durante il tragitto, nel secondo sarà la percezione che noi stessi abbiamo dei nostri oggetti, e quindi delle nostre storie, a influenzare il valore del pegno. L’aspetto più amaro del film richiama proprio questo principio. Da un lato, e nel primo caso, la Storia umana coincide con la storia individuale attraverso l’oggetto/detrito in mare, dall’altro, l’oggetto porta con se la storia individuale che diventa una manifestazione di un disagio sociale, di un’altra Storia economica a noi tutti, come la prima, ben nota. Irene Dionisio prova a controllare la realtà attraverso una messa in scena che necessita di una libertà drammaturgica per narrarsi, e questo va a discapito della coesione dell’intreccio e della definizione dei caratteri, ma arrivando a dimostrare una sua visione autoriale sincera e coerente, definita più nel contenuto e nell’identità diacronica dei suoi due lavori che nella riuscita espressiva di quest’ultimo. Quello che rimane è un luogo con i suoi personaggi altamente verosimili e ben orchestrati, un posto di confine tra il debito e l’identità, tra la descrizione e la narrazione, tra noi e ciò che di noi resta e che si mette in pegno.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 06/10/2016

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