Last Summer
Il lungometraggio d'esordio di Serragnoli è un'opera di barriere fisiche ma soprattutto emotive, un lento superamento dei limiti spazio-temporali attraverso la forza dell'amore materno
In Last Summer (2014), verso la fine, e più precisamente appena dopo che si è finalmente stabilito quel contatto tra madre e figlio faticosamente inseguito, anelato per tutto il film, Naomi (Rinko Kikuchi) racconta al figlio Ken (Ken Brady) la leggenda di un’isola giapponese secondo cui, stando stesi sulla spiaggia e fissando il sole a una data ora del giorno, è possibile incontrare il Dio del mare. Chiunque lo incontri riceve in dono la facoltà di viaggiare per tutto il mondo in un istante. Il lungometraggio d’esordio di Leonardo Guerra Seràgnoli è appunto un film sul superamento dei confini spazio-temporali attraverso la forza dei sentimenti. Naomi ha solo quattro giorni su uno yacht, assediata da un equipaggio silenzioso ma invadente, per riconquistare l’affetto del piccolo figlio Ken, sottratto alla madre e affidato alle cure del padre che non vediamo mai, per una colpa commessa dalla donna tempo fa e di cui non sapremo mai nulla. Terminate queste poche ore, Naomi dovrà allontanarsi dal figlio per undici anni, prima di poterlo rivedere.
Opera di barriere fisiche ma soprattutto emotive, dove distanza e separazione determinano e configurano la messa in scena a partire da un calibrato lavoro sullo spazio che si fa totalizzante, cuore pulsante di un’operazione registica rivolta con intensità a un cinema di silenzi e gesti quotidiani vivo soprattutto nel panorama asiatico, e in particolare in quello coreano (assieme al graphic novelist italiano Igort, contribuisce alla sceneggiatura anche la scrittrice giapponese Banana Yoshimoto). Seragnoli sfrutta abilmente la costrizione imposta dagli spazi angusti dello yacht, in cui si dipana la ricerca d’amore materno di Naomi, per ingigantire la distanza affettiva - e culturale - tra una madre e un figlio separati da tempo. Alla vicinanza estrema determinata dalla logica dell’ambiente corrisponde il massimo della distanza sentimentale che andrà limata sempre più, ora dopo ora, tentativo dopo tentativo, fino a risvegliare quel rapporto sopito, mai totalmente dimenticato. Specchi e superfici riflettenti producono a più riprese effetti illusori che disorientano la prospettiva, - così come alcune false soggettive -, suggerendo lo spaesamento provato da Naomi, la cui identità di madre lotta per riaffermare sé stessa e riconoscersi attraverso il contatto a lungo inseguito col figlio. Quasi tutto comunica in assenza (le telefonate del nonno paterno di Ken che non compare mai) o attraverso ostacoli (Naomi e poi lo stesso Ken origliano sovente ciò che accade in altre stanze).
In Last Summer, all’isolamento in cui sono costretti i personaggi, a partire dal micro mondo familiare creato dai confini che la barca e la sconfinata distesa d’acqua segnano intorno a loro, corrisponde un secondo e più subdolo isolamento, quello a cui l’equipaggio dello yacht, istruito dal padre di Ken, tenta di relegare Naomi, allontanando la donna dalle simpatie del figlio. L’unica risposta possibile a questa strategia di esclusione è allora trovare le coordinate emotive per rifugiarsi in un altro tipo di rapporto esclusivo, basato però su legami più profondi rispetto alla semplice educazione impartita e subita, quello tra una madre e figlio in cui ad essere lasciato fuori è il resto del mondo. Una progressione precisa che porta, dalla comunicazione degli sguardi, passando per la lingua giapponese sconosciuta ai membri dell’equipaggio con cui Naomi inizia a rivolgersi a Ken, fino al contatto fisico in riva al mare, quando il film comincia a respirare liberandosi, anche se forse solo per un attimo, dalla logica angusta dettata fino a quel momento dallo spazio.
I quattro giorni volgono al termine, ineluttabili, lasciando davanti a sé la consapevolezza della crudeltà del tempo, ma, al tempo stesso, la riconquistata fiducia in un legame pronto a superarne la prova. Per Naomi la breccia è stata aperta e non solo nel figlio Ken. Seràgnoli, con sguardo delicato e millimetrico, ci regala prima del congedo definitivo della protagonista, un ultimo e insperato contatto umano, rigorosamente silente, tra la donna e il capitano dell’equipaggio, in una stretta di mano che ha il sapore di una speranzosa e commossa conquista.