Lo strano caso di Angelica: a cento anni compiuti il grande regista portoghese Manoel De Oliveira riprende un soggetto da lui scritto più di mezzo secolo prima e ne fa un film misterioso e incantato, in cui il soprannaturale e la magia si insinuano indisturbati nel regno reale e tangibile della materia mentre le note di Chopin enfatizzano atmosfere di buñueliana memoria. La storia è quella di un fotografo ebreo, Isaac, che soggiorna in una piccola pensione gestita dalla signora Justina, premurosa e materna nei suoi confronti. In una notte di pioggia Isaac viene chiamato dai familiari di una donna morta improvvisamente, la giovane e graziosa Angelica, affinché le possa fare un ultimo ritratto prima della sepoltura. Il fotografo arriva così a casa di lei, e la trova adagiata su un divano di velluto azzurro, vestita da sposa, circondata dal mormorio composto dei familiari in lutto; affascinato dal viso disteso e sereno di lei, Isaac la guarda attraverso l’obiettivo in cerca dall’angolazione migliore per scattare, quando inaspettatamente la vede aprire gli occhi e sorridergli. Ancor più grande diventa il suo stupore quando si accorge che nessuno attorno a lui sembra aver visto quanto accaduto. Da questo momento in poi il pensiero di Angelica diventa per Isaac un’ossessione: la vede di notte nella sua stanza, e sogna (sogna?) di volare abbracciato a lei sopra le campagne addormentate e il fiume che scorre placido nella quiete notturna, come in un dipinto di Chagall. Nel frattempo i pensionanti e la signora Justina iniziano a guardarlo con sospetto e diffidenza, non riuscendo a spiegare i suoi comportamenti enigmatici e i suoi stati di agitazione.
Viene in mente il realismo magico di Garcìa Marquez di fronte al film di De Oliveira, che descrive un mondo in cui la superficie di una quotidianità altrimenti ordinaria viene increspata all’improvviso da accadimenti indefinibili e soprattutto inspiegabili. Del resto, durante la colazione, i pensionanti di Justina discorrono tranquillamente di materia e antimateria: “Non crediamo abbastanza nell’antimateria per vederla ad occhio nudo”, dirà un ingegnere. Ma Isaac, che è un fotografo e guarda tutto attraverso l’occhio speciale dell’obiettivo, riesce forse a vedere ciò che agli altri sfugge: gli occhi aperti e vivi di Angelica e il suo sorriso, che non sono più materia eppure esistono davanti a lui.
Se ci sono insomma due mondi (immanente e trascendente, materia e antimateria, oppure materia e spirito) questi due mondi si incontrano nella figura di Isaac in virtù della sua capacità di vedere. Richiamando il discorso antonioniano che sta alla base del meraviglioso Blow Up e facendo della figura del fotografo, per traslato, una metafora dell’idea del cinema come mezzo privilegiato d’indagine del reale, Lo strano caso di Angelica è una meditazione affascinata e affascinante che intreccia temi diversi in un discorso coeso e intrigante: la percezione soggettiva delle cose, il visibile e l’invisibile, il sentimento amoroso come rapimento ed estasi che trascende il corpo e al contempo gli appartiene, la capacità di penetrare e comprendere la realtà attraverso uno sguardo più profondo e più ricettivo (sguardo che, in ultimo, coincide con il cinema stesso).
Il film, fatto di immagini chiare e luminose negli esterni e di penombre pastose e dense negli interni, è tutto segnato da una forte tendenza all’astrazione, da una sorta di seduzione dell’immateriale e dello spirituale esenti però da una marca religiosa e sacrale: queste sue atmosfere evocano, in questo senso, l’universo misterioso, incorporeo e intangibile della poesia di Ferdando Pessoa, un altro grande interprete del Novecento portoghese (che De Oliveira cita peraltro nel suo film Singolarità di una ragazza bionda). Più che una vocazione alla trascendenza pura si percepisce insomma, in questo comune territorio percorso da De Oliveira e Pessoa, una peculiare assenza di carnalità, uno sguardo cristallino e trasparente tutto preso a carpire l’essenza invisibile delle cose.