Quando poco più di un anno fa iniziò a circolare la notizia della produzione de Il ponte delle spie le aspettative iniziarono a montare e il countdown a scandire i mesi senza tregua, il tutto accentuato dalla partecipazione alla sceneggiatura dei fratelli Coen. Le ragioni di un’attesa così spasmodica sono tante, tra cui in primis la rinnovata partnership tra Tom Hanks e Steven Spielberg, senza peraltro sottovalutare l’enorme consenso critico ottenuto dal regista per il suo ultimo film, Lincoln.
Assistere finalmente a Il ponte delle spie ci ha portati alla consapevolezza di essere di fronte a un lavoro di grandissima densità narrativa, ma forse più ancora concettuale ed estetica. Se da un lato infatti l’opera prosegue quel discorso sulla Storia che il cinema di Spielberg sta portando avanti dagli anni Novanta, dall’altro questo processo sta assumendo sempre più le tonalità di una missione che guarda tanto al processo storico quanto alla sua rappresentazione, e si sporge fino a fare del cinema il linguaggio principe per la messa in scena dell’Ideale.
Se la Settima Arte rappresenta l’occhio del Novecento (per citare il fondamentale testo di Francesco Casetti) di conseguenza Spielberg si pone come colui che in questa particolare congiuntura storica depura il linguaggio filmico di ogni orpello, di ogni impurità, di ogni esuberanza superflua, in modo da renderlo una macchina infallibile, un dispositivo di comunicazione universale e classico.
È proprio sulla comunione tra uno stile classico sempre più meticoloso e la ricerca di un ideale prima individuale e poi civile che si concentrano i tre articoli che compongono questa copertina, ciascuno dei quali è pensato da un differente punto di vista, con l’obiettivo di offrire una lettura se non esaustiva quanto meno il più ricca possibile di un’opera di tale porosità.
Il primo approfondimento è a firma del sottoscritto e ha il compito di dimostrare quanto la chiave interpretativa del film stia proprio nel “manuale delle regole” (abbondantemente citato da diversi personaggi), ovvero nella concezione del professionismo come forma principale di autodeterminazione e dell’etica come naturale conseguenza di questo atteggiamento. Nulla di tutto questo però avrebbe senso se Spielberg non facesse ricorso al più importante dei manuali delle regole – quello cinematografico – offrendo una vera e propria lezione di regia cinematografica e adottando in maniera maniacale e sempre significante i principi fondamentali del linguaggio classico.
Il secondo contributo, firmato da Giulio Casadei, i legge il film di Spielberg come una grande riflessione sulla costituzione americana e sul suo essere stata ideata, concepita e sviluppata come un insieme di valori non negoziabili e collante di un’intera comunità. Il passaggio all’età adulta della nazione americana raccontato da Spielberg (regista fordiano per eccellenza) dopo aver attraversato l’abolizione della schiavitù arriva a trattare la Guerra Fredda facendo emergere l’insostituibilità dell’umano e la sua capacità di trascendere ogni barriera politica e culturale.
Infine l’articolo di Matteo Berardini si concentra sul concetto di Ideale nel cinema di Spielberg, in particolare per ciò che concerne i lavori dichiaratamente ’storici’. In Lincoln come ne Il ponte delle spie, sostiene Berardini, il concetto di idealismo spielberghiano non può che partire dall’individuo, figura chiave per il corretto funzionamento dello Stato. Cinema come forma di discorso morale, che si serve del passato per ergersi a modello per il presente; cinema come forma di dialogo interiore, per superare i troppi muri che tornano a infestare il mondo che ci circonda.
Buona lettura.