Luke Cage

La prima serie su un supereroe nero fornisce il pretesto per una riflessione sull'identità della comunità black nell'immaginario americano, dove la Storia si iscrive nel passato dei personaggi.

Sono bastate tre sole serie perché l’universo Netflix/Marvel prendesse bene le distanze da quello cinematografico: e non ci si riferisce solo ai toni più cupi, sbandierati in ogni dove sulla Rete, ma al più sottile tentativo di rimodulare l’icona supereroistica per andare al di là del semplice feticcio di massa.

Come solo poche pellicole cinematografiche sono riuscite attualmente a fare – si pensi ad Iron Man 3, con la sua riflessione sull’America che produce da sé i suoi demoni nell’era del terrore globale – le miniserie Netflix ragionano su quanto l’eroe diventi icona identitaria di una parte (spesso oppressa) del sentire americano. Se Jessica Jones si configurava in quanto analisi sulla violenza di genere, Luke Cage trasporta gli umori disfunzionali di questi eroi loro malgrado nel contesto della comunità nera americana.

La scelta assume un significato particolare nel periodo in cui, alla fine della presidenza Obama, la questione razziale è rispuntata con particolare virulenza, complici i recenti e vari fatti di sangue conseguenti gli scontri tra cittadini neri americani e polizia. L’approccio è comunque guardingo, attento a non far oscillare mai troppo la bilancia da un versante e dall’altro, evitando dicotomie nette (ed effettivamente stucchevoli), inserendo personaggi trasversali come la detective Misty Knight (che opera per la polizia, ma è anche in sintonia con l’eroe) o la consigliera Mariah Dillard, che predica invece il bene di Harlem ma poi tratta sottobanco con la malavita per garantirsi la scalata al potere. Il quadro è così intensificato da una complessa rete di relazioni che ci dicono di una realtà magmatica, dove la rivendicazione costante dell’orgoglio nero scende a compromessi con una società che ha imposto i meccanismi della sopraffazione reciproca. In questo scenario Luke si pone come figura onnipotente eppure dimessa, refrattaria a lasciarsi coinvolgere e persino maldisposta all’idea dell’eroismo in affitto che era la caratteristica fondante dell’originaria epopea a fumetti – in un divertito inside-joke lo vediamo anche indossare e poi dismettere immediatamente l’iconico costume giallo anni Settanta.

Se da un lato si ossequia pertanto la problematicità dell’eroe, dall’altro si riscopre un gusto più da Golden Age del genere, dove il corpo invincibile e le gesta di disinteressato altruismo dell’icona diventano fonte di ispirazione per i singoli cittadini.

Gli snodi narrativi cercano pertanto di esaltare sempre più un precipitato iconico, che vada a toccare le corde dell’inconscio collettivo attraverso il simbolico gesto del corpo-che-non-cade davanti ai proiettili – le felpe bucate dalle pallottole rimbalzate sulla pelle dell’eroe diventano non a caso un simbolo identitario per i giovani del quartiere. In questo senso si collocano alcune soluzioni pure didascaliche, ma necessarie per definire il perimetro in cui si va a inserire la serie: l’ambientazione ad Harlem, i titoli delle puntate che a mo’ di concept album richiamano le canzoni del duo Gang Starr, il rapper Method Man che, nel ruolo di se stesso, dedica a Luke una canzone e tutti gli intermezzi musicali che compongono una partitura di artisti black (da Nina Simone a John Lee Hooker) utile a rivendicare la profonda impronta calcata dalla cultura nera nell’immaginario americano tutto.

Immagine rimossa.Data questa matrice sociologico-storico-iconografica, il racconto può ripiegare in una chiave più intima, dove l’identità generale di Harlem e dell’America deve scriversi attraverso l’indagine sul passato di ogni personaggio e sul suo senso di appartenenza a una comunità. Ecco dunque i legami familiari che uniscono Mariah Dillard e il cugino gangster Cottonmouth, o pure quello che unisce lo stesso Cage al ricordo dell’amata moglie Reda o all’amico e mentore Pop – senza contare le rivelazioni che arriveranno in corso d’opera sul villain Diamondback. Non a caso, lo stile narrativo predilige una sorta di congelamento dell’azione, che si estrinseca in scontri corpo a corpo estremamente asciutti e brevi, a fronte di una situazione emotiva invece incandescente e sempre pronta a guidare le azioni dei personaggi fino alle estreme conseguenze.

Certo, non tutto funziona come dovrebbe: le logiche della serialità a volte costringono a ritardare o a delegare ai flashback la trattazione degli argomenti più pregnanti nella definizione delle varie personalità in campo e questo fa perdere un po’ di coesione al racconto, delegando le migliori intenzioni a scelte meramente esteriori. E se viene giustamente da chiedersi quanto ancora più potente sarebbe stato un simile potenziale in mano a un autore vero (si pensi a Spike Lee), il tentativo resta comunque interessante, grazie alla capacità (anch’essa giustamente tutta esteriore) di giocare con l’immagine dei personaggi e con la profondità mitica che ogni attore ispira rispetto al proprio ruolo. C’è il carisma dimesso e la stolidità iconografica di Mike Colter, la teatralità vocale di Erik LaRay Harvey o la presenza sottilmente inquietante di Theo Rossi: tutte insieme compongono una mitologia americana che giustamente non cambia il destino finale della comunità nera, regalandoci un coraggioso ending aperto che in fondo è una firma in calce al dramma di queste figure ispiratrici: tutte sognano di poter raddrizzare i torti, ma non possono poi cambiare realmente la storia.

Autore: Davide Di Giorgio
Pubblicato il 24/10/2016

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