In un futuro assai vicino e plausibile, la Terra sta vivendo il suo terzo conflitto mondiale. Le conseguenze di logiche egoistiche ed economiche dettate dalle potenze in guerra sono facilmente immaginabili: scenari apocalittici di terre deserte, provvigioni esaurite e un’umanità corrotta e decimata sono alcuni fra gli incontrovertibili indizi che ribadiscono quanto sta accadendo. Le nazioni che si sono dichiarate guerra l’un l’altra si stanno muovendo nel più logico – eppure illogico – dei modi, intendendo cioè il conflitto come se non fosse combattuto dagli uomini, ragionando come se gli unici sopravvissuti una volta conclusa la guerra dovessero essere solo gli Stati sovrani, anche se questi si ritrovassero senza una popolazione che ne giustificasse l’esistenza. Il genere umano pare sull’orlo della terminazione.
Nel tempo in cui sono narrati i fatti de L’ultima guerra le popolazioni hanno abbandonato l’entroterra accalcandosi sulle coste. Nondimeno, si vivono in maniera radicale questi anni bellici, e le alternative sono poche: temporeggiare (ma con scarse possibilità di sopravvivenza), arruolarsi (ma nelle file di chi farlo è impossibile comprenderlo, e il bene e il male non sono mai stati così confusi), oppure divenire dei mercenari, antica pratica di guerra assai remunerativa ma ignobile per chi la sceglie. Nonostante tutto, quindi, quella di restare in vita sembra l’unica via percorribile se non si vuole piegare la testa davanti al nemico o combattere al suo fianco. Da qui la storia narrata, riguardante un gruppo di quattro amici che prova a sopravvivere al conflitto riparandosi in un’abitazione marittima e desolata. Alterne vicende li porteranno a confrontarsi con gli orrori bellici e morali della guerra, con un finale consolatorio che vuol lasciare intendere un futuro più radioso per il genere umano.
Omar Protani e Marco Farina sono un duo registico e artistico che Point Blank ha già avuto modo di apprezzare nel loro precedente lavoro Urla in collina, episodio del lungometraggio a più mani Fantasmi – Italian Ghost Stories. Quanto la coppia abbia come potenziale esprimibile certo non siamo i primi a notarlo (Gabriele Albanesi docet). Tuttavia constatare come al percorso cronologico si affianchi anche quello artistico, ovvero come all’aumentare del carnet di opere da loro realizzate si manifesti anche un’accresciuta sapienza cinematografica è sempre un dato che si sottolinea con piacere. L’opera infatti alza – e di molto – la caratura artistica rispetto alle pure buone prove realizzate sin qui. Protani e Farina riescono a camuffare un budget molto limitato e le sue inevitabili conseguenze in una messa in scena funzionale, dove la scomparsa dell’uomo dagli scenari immortalati gioca una carta fascinatoria di potenza innegabile. A ciò si deve aggiungere anche un buon utilizzo dei capitali disponibili, che nonostante fossero appena sufficienti sono stati piegati al volere dei registi permettendo loro di ricreare degli scenari di guerra confacenti all’obiettivo preposto, per un risultato finale che annovera un discreto numero di comparse, decine di location e un comparto militaristico (fra armi, camionette, jeep e aeroplani) di tutto rispetto. Quello che però ancora manca agli autori è un ulteriore salto qualitativo, che li sleghi definitivamente da impostazioni che nonostante tutto trasudano amatorialità. La scelta del casting difetta in efficacia, proponendo delle prove attoriali idiosincratiche all’aura che un film bellico e granitico dovrebbe possedere. La sceneggiatura e i dialoghi risentono ancora di una retorica che non si addice alla materia trattata. Non ultimo, il lavoro di regia viene inquinato da una serie di sbavature abbastanza numerose, lanciando anche alcune ombre sul montaggio che non ha saputo porre rimedio a simili difetti. Tutte imperfezioni che potevano essere risolte agendo diversamente, ma che poste sul tavolo critico ridimensionano la pure importante prova realizzata.
Per dirla con una battuta, l’effetto che fa visionare L’ultima guerra – memori del percorso artistico di Protani e Farina – è quello di intendere che i due autori non abbiano ancora metabolizzato la loro crescita artistica che pure è avvenuta. È come se i due non volessero credere al loro processo maturativo pure così lampante. Possiedono gli strumenti per fare meglio ma ancora non si arrischiano a metterli in campo. L’auspicio per le loro nuove opere – di cui una già in cantiere – è quello di rischiare di più, anche con scelte antipatiche, inusitate e lontane dal loro classico modus operandi. Le qualità ci sono, e i margini migliorativi in nuce è tempo di onorarli.