Sia che la si guardi da fuori, sia che ci si avventuri al suo interno, la produzione cinematografica italiana appare per buona parte come una terra selvaggia, un mondo caotico in cui la creatività deve spesso destreggiarsi tra finanziamenti pubblici ed ingerenze politico-televisive. Alcune caratteristiche sono peculiari del nostro paese, altre sono a tutti gli effetti universali, ed una di queste, banalmente la più basilare, è che senza soldi non ci si smuove. Non si va avanti nella realizzazione, ma soprattutto non si arriva alla distribuzione. Marco Chiarini, regista abruzzese esordiente – uscito da quel Centro Sperimentale di Cinematografia che il governo nei giorni passati ha provato indirettamente a chiudere con i tagli indiscriminati della sua manovra finanziaria – è riuscito a trovare delle soluzioni creative per affrontare entrambi i problemi finanziari, la realizzazione e la distribuzione, e concretizzare così il suo L’uomo fiammifero, un’opera prima che si è guadagnata due candidature ai David 2009-1010, una per Ermanno de Nicola nei “migliori effetti speciali visivi”, e l’altra per lo stesso Chiarini, candidato come “miglior regista esordiente”.
La genesi del film risale al 2005, quando le idee e le immagini fino ad allora mentali si concretizzano nei disegni per le prime animazioni, in foto di scena e acquarelli, tutti elementi che costituiranno lo scheletro di una storia costruita sul potere e il ruolo dell’immaginazione. Il progetto e le idee ci sono ma mancano i soldi, e per procurarseli Chiarini ha un’idea che si rivelerà fortunata: raccogliere tutto il lavoro finora realizzato in un libro illustrato da presentare e vendere nelle librerie, così da racimolare il budget necessario e allo stesso promuovere il futuro film. L’opera però una volta realizzata deve anche essere distribuita, un film non visto è un film che non esiste e gli amici e il pubblico di alcuni festival non sono sufficienti. Per risolvere questo secondo problema universale, che rinchiude spesso alcune piccole realtà produttive in un limbo che può durare anche anni, Chiarini e i suoi partoriscono un progetto tanto ideale quanto geniale: la “social distribution”, in cui è lo spettatore stesso a farsi produzione. Come? Si rintraccia un cinema adatto – è sufficiente una sala a proiezione digitale – nella propria città, ci si accorda sulle date, si mette in giro la voce e si organizza la proiezione del film, che verrà inviato dagli autori assieme agli strumenti tecnici e pubblicitari necessari. E tutto ciò gratis e per amore del piccolo cinema? No, perché una volta concluse le giornate di produzione anche chi ha organizzato il tutto ci guadagna: il 50% degli incassi va all’esercente, gli autori prendono il 40% e noi il 10% rimanente. Lo spettatore si fa produzione e pubblicitario in un meccanismo sociale in cui tutti ci guadagnano, in primis il cinema. Funzionerà?
Dietro la distribuzione, i soldi e i libri illustrati deve esserci comunque un film e il suo valore e, diciamolo subito, L’uomo fiammifero ne ha molto. Siamo nell’estate dell’82 e Simone è un ragazzo undicenne bloccato con il padre nella cascina semisperduta della campagna abruzzese. Con gli amici in vacanza le giornate per Simone diventano interminabili, bisogna sfuggire alla noia assoluta e l’unico modo per farlo è dare libero sfogo all’immaginazione. Nascono così una serie di personaggi magnifici: Mani Grandi, il figlio dei giganti del paese, che può far rivivere magicamente i ricordi più belli delle persone; lo Zio Disco, in grado di parlare solo attraverso i suoi innumerevoli dischi e il grammofono; i compagni di avventura Giulio Buio e sua sorella Dina Lampa e Ocram, il ragazzo che fa tutto al contrario. Aiutato da questi amici immaginari, Simone ha una missione ben precisa da portare a termine: trovare l’uomo fiammifero e provarne finalmente l’esistenza al padre. Nel corso della ricerca si aggiungerà a questi personaggi la reale Lorenza, una ragazza piccola e intelligente come lui che viene dalla città, una nuova sfida, un’altra persona da coinvolgere nella sua storia.
Si moltiplicano così le fughe escogitate dal ragazzo per sfuggire al controllo del padre, un burbero Francesco Pannofino che riesce a rendere benissimo la dolcezza e il profondo dolore celati sotto la scorza ruvida di questo contadino abruzzese. Il modo in cui Chiarini riesce a mostrarci il rapporto tra il padre e il figlio è una delle cose più riuscite del film, assieme agli escamotage usati per riprodurre molte delle fantasie di Simone. Stop motion, ritocchi digitali, ricorso diretto ai disegni e agli acquarelli: Chiarini usa tutte le tecniche possibili – assieme ad una musica adorabile e suggestiva – per immergerci nello sguardo del bambino.
Ambientata in un paesaggio selvaggio dai colori fiabeschi, la favola di Simone diviene la storia di una crescita e di un’accettazione. L’uomo fiammifero infatti è una storia che la mamma di Simone ha lasciato al figlio prima di morire, e l’immersione in questa fantasia è l’unico modo che il ragazzo ha per mantenere reale il ricordo del genitore. Chiarini riesce in un intento non facile, creare una fiaba che racchiuda in sé la metafora del percorso di accettazione del lutto e del ruolo in questo dell’immaginazione, senza però rinchiudere la storia in questa dimensione. Le fantasie contano tanto quanto il dolore che cercano di sublimare, il momento di accettazione della realtà arriva, con il falò con cui Simone chiede al padre di distruggere tutti i suoi giochi sull’uomo fiammifero, ma la notte successiva l’uomo fiammifero arriva per davvero, visto dal ragazzo e dal padre assieme, a testimoniare forse la speranza e la capacità per entrambi di ricominciare dal principio, o magari a mostrare la forza del cinema e del film stesso, sopravvissuto ad un percorso affatto facile. O magari è solo pura, semplice e splendida immaginazione.