Mad Max: Fury Road – Un film-concerto: oltre la sfera del cinema.

Un ponte tra il vecchio ed il nuovo, una corsa folle dalla zona rossa alla zona verde, e ritorno.

«Il confronto con il giro di giostra vale soprattutto per alcuni film, mentre quello che ha come secondo termine di paragone il fuoco d’artificio si adatta bene ai film violenti, ma qui, per parlare di questo cinema, preferiamo come secondo termine la parola concerto

Laurent Jullier – Il cinema postmoderno.

E’ impossibile non uscire dal cinema, dopo la visione di Mad Max: Fury Road del grande – aggettivo oggettivamente ad oggi dimostrabile - regista australiano George Miller, se non carichi fino al midollo di adrenalina polverosa ed infuocati da un cinema che ha riconquistato di diritto quell’ambiente contestuale proprio ed unico alla sua perfetta enunciazione, quel luogo adatto al godimento totale della sua fruizione: la sala cinematografica, appunto. Quell’anima primigenia e morente del cinema delle origini ha ritrovato la linfa vitale dello stupore.

La furia e la follia contagiano ogni cellula umana scorrendo nei vasi sanguigni dello spettatore resi incandescenti da un prodotto totalmente e puramente audiovisivo. Noi italiani siamo sfortunati (compreso il sottoscritto), la visione di un film così pregno di spettacolarità sensoriale si riduce spesso a sale che riescono a malapena a veicolarne una parte della sua potenza implicita, come immersi in vasche troppo piccole per l’intensità ed immensità di un bagno audiovisivo così caldo e fumante, trasmesso dal perfetto contrappunto ludico tra le immagini e i suoni. Stiamo parlando di un film che necessita una visione in 3d in una sala Imax (mai, credo, contesto più attinente per una simile e piena fruzione), una sala del genere sarebbe la vasca perfetta per un’immersione totale, l’attrattiva in ferro, poltrone e luce, di quel parco giochi chiamato cinema.

Mad Max: Fury Road è un giro in giostra di natura anarchica, selvaggiamente pirotecnica. Unisce le due definizioni date da Jullier (in realtà la prima è attribuibile a Lucas e ripresa dallo stesso teorico francese) al suo concetto di cinema postmoderno. E’ l’apoteosi del film-concerto sulla base delle tre sue caratteristiche più evidenti: l’obbligo di ricorrere a un dispositivo tecnologico concepito ad hoc (per non svalutarsi, appunto); l’idea di spettacolo come hic et nuc; il prevalere della dimensione sonora su quella visiva [..] immergendo l’uditorio in un bagno sonoro – e visivo – al quale esso non può sottrarsi. E su quest’ultimo punto Miller riesce a scardinare la definizione postmoderna riuscendo a rendere, in perfetta armonia simbiotica, le due sfere sensoriali in un parallelismo complementare, ri-definendo il costrutto teorico, e ponendo l’immagine visiva sullo stesso livello di quella sonora (considerando la colonna sonora come entità totalmente diegetica) e - proseguendo con le parole di Jullier - usare una tecnologia che segna un progresso decisivo nel passaggio dall’immagine piana all’immagine-sensazione.

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Mad Max: Fury Road è dannatamente smart (nell’accezione data da Jullier al 4° livello nel suo – splendido, semplice e sintetico – esempio nell’introduzione al cinema postmoderno esplicitato attraverso la parabola della "paura del portiere prima del calcio di rigore"), in grado quindi di riciclare sì figure classiche (1° livello), ma del suo stesso cinema – quindi proprie della sua weltanschauung artistica. Fury Road non è nient’altro che un pastiche (sensazionalistico) di ciò che negli anni ’80 è stato espresso dalla trilogia dei suoi Mad Max. Ma su questo aspetto torneremo in seguito.

Fury Road è anche pienamente fun, in grado quindi di prenderci come bersagli arruolabili, sia ad un livello di pancia, quindi ad un livello emotivo-gastrointestinale, bombardandoci di immagini-sensazioni pirotecniche, sia ad un livello celebrale, neuronico, sinaptico e nervoso. Mad Max è tutto questo ed altro ancora. Passiamo ora al dettaglio.

Da dove provengono i fantasmi di Max? Di cosa si nutrono? Derivano dalla vendetta e si nutrono della stessa. Nel 1979 uscì nelle sale il primo film della serie, stiamo parlando di Mad Max (in Italia distribuito come Interceptor), un film a basso costo australiano che conquistò le sale cinematografiche mondiali (e le videoteche in VHS) facendogli incassare delle cifre stratosferiche. Ed è proprio in questo primo film che si insinua il barlume della follia nel protagonista, la sanità mentale si sgretola di fronte all’omicidio della moglie e del piccolo figlio di Max per mano di un gruppo di motociclisti folli.

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Da allora, e per i rispettivi due film della trilogia, il nostro protagonista è costretto a vagare – apparendo all’inizio e scomparendo nel finale (come un anti-eroe western "leoniano", in un universo nuclearizzato steampunk dove i cavalli sono costretti a correre dentro rombanti motori meccanici) in un mondo dominato dal caos (mentale?) trasfigurato in un contesto atomizzato e post-nucleare. E’ in questo primo film che, soffermandosi più sulla psicologia del personaggio rispetto all’ambientazione, George Miller introduce il seme della follia che inizierà il racconto in Fury Road. Ed è questo l’inizio della saga e dello stile, accattivante e personale, che Miller continuerà ad usare come una firma indelebile del suo stile registico. Tagli iperveloci, accelerazioni delle immagini, fondu e tendine, zoommate a schiaffo, primi e primissimi piani, il tutto condito da cadute spettacolari, amputazioni degli arti, frontali automobilistici, disarcionamenti, collusioni, lamiere infrante, esplosioni infuocate, ma soprattutto con la prima apparizione della mitica V8 Interceptor. Il Max del primo film è un eroe australiano totalmente inserito nel suo contesto storico, geografico e sociale, un personaggio che ha visto (ma non vissuto – questa è la differenza cardine tra anti-eroi – statunitensi ed australiani di quegli anni), attraverso miglia marittime, la devastazione della guerra in Vietnam (il film uscirà nove anni dopo la sua fine lasciando però in trasparenza una gestazione nell’animo del regista che ha vissuto – lontanamente da spettatore – il sanguinoso conflitto) non riuscendo a riconoscere in lui l’eroismo o il super-eroismo buono alle urlanti reclame consolatrici nazionali statunitensi. Non combatte per qualcuno ma solo per il suo senso civico, non uccide a comando ma solo per una vendetta puramente personale. Ed è sempre qui che appaiono gli antesignani ballardiani (prima, cronenberghiani, poi) innesti biomeccanici, come se l’uomo (ma in questo caso mi riferisco a quell’anziana donna che cercherà di difendere nella fattoria la coppia dai folli motociclisti) fosse parte integrante di un assemblamento carnale ed allo stesso tempo meccanico, il giusto e naturale prolungamento epidermico di lamiere e motori.

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Fattore questo portato alle estreme conseguenze in Fury Road, la metamorfosi tra macchina e corpo ha raggiunto la sua ideale conclusione, la "sacca" di Max nutrirà il "volante" e con esso la macchina stessa. La biologia umana si trasfigura in pistoni e valvole, le macchine sembrano organici prolungamenti dei suoi guidatori, escrescenze tumorali di carne, sangue e metallo; lo stesso corpo femminile è descritto con termini cari al maschio lettore di riviste specializzate in forniture automobilistiche, le cromature del corpo femminile diventano così possedimenti macisti (da amare o sostituire come la propria macchina) utili solo per la riproduzione di un’umanità sana in un mondo dove i corpi stanno arrugginendo, colpiti da tensioni radioattive.

Le genialità di Miller sta (e rimane) nel sapiente uso di materiali cari ad un immaginario, cinematografico e non, totalmente eterogeneo che uniti riescono a dare quella marcia in più ai suoi prodotti action. In Interceptor – Il guerriero della strada (l’episodio forse più riuscito dell’intera trilogia anni’80) l’ambientazione ed il lato più oscuro e predatorio di Max sono portati a paragone, spesso e giustamente, con una struttura di chiaro stampo tragico-ellenistico. L’universo di Max viene introdotto attraverso un excursus in apertura ed in chiusura (utilizzando la voce over del vecchio Kid) che tornerà anche come meccanismo d’introduzione narrativa all’ambientazione in Fury Road. Le derive medievali della società oramai ridotta a poche unità selvagge, combattono con odio e mazze ferrate, con armi bianche arpioni e fuoco per difendere la propria incolumità dalla pazzia virale che vuole (e pretende) il dominio del petrolio. Da buon australiano attento alle problematiche legate all’ecosistema ed alle risorse che da esso derivano, Miller, ad ogni Mad Max, utilizza le risorse (energetiche e motrici) dell’umanità come un appuntito scalpello per alzare, rigorosamente dietro al genere di riferimento (altra similitudine con il western di stampo italiano-leoniano), delle problematiche di carattere universale (e politiche) di ecosostenibilità energetica. Si passa quindi dall’oro nero de Il guerriero della strada al metano prodotto dal letame dei maiali (ed all’embargo energetico) de Oltre la sfera del tuono [1] per giungere, infine, all’oro bianco (l’acqua) di Fury Road.

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Gli archetipi del genere western della prima trilogia vengono totalmente superati ( o meglio, metabolizzati) nel quarto capitolo che include, certamente, tutte le passate desinenze del genere ma che le piega al bisogno action di un cinema postmoderno (smart e fun) dell’ultimo e nuovo capitolo. Il duello finale nel primo capitolo, la sua natura dicotomica benigna e maligna così sfumata, l’attacco alla diligenza nel finale del terzo, la cittadella da difendere e i punk indianizzati del secondo, sono solo alcuni dei topoi che Miller recupera dal genere traslandoli in un contesto totalmente nuovo. Se pensiamo poi alla corsa del bastimento dal punto A al punto B, e ritorno, quindi all’assalto della motrice/diligenza di Fury Road, immediatamente ci vien da pensare alla sicura struttura drammatica di Convoy – Trincea d’asfalto di Sam Pechinpah (e di conseguenza ad Ombre Rosse di Ford), altro regista che ha dato molto al genere del neo-western.

E per tornare a monte, e finire questo articolo fiume che potrebbe continuare all’infinito, nutrendosi dello stesso gusto spettatoriale delle visioni di Fury Road alla potenza di n non periodica, mi risulta difficile non considerare, o sottolineare, la colonna sonora del film (metal-rock) totalmente diegetica. La musica, dalla machine(car)drum alle schitarrate infuocate della flamecar (di natura rigorosamente artigianale ed analogica), diventa una fanfara concreta, un action-musical in movimento su un tappeto sonoro interagibile dai personaggi, Miller riesce in qualcosa di unico, ponendo il punto di vista spettatoriale sempre nel mezzo tra il suono ed il ferro, in acrobatiche e coreografiche evoluzioni, visive e sonore, puramente audiovisive.

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Mad Max ed il furioso ed anarchico senso del meraviglioso cinematografico hanno riconquistato sia la massa che la critica cinematografica in maniera trasversale ed universale. Acclamato ed ammirato, Fury Road segna la strada, come una cometa seguita da pazzi e drogati magi, verso quella sala cinematografica, fonte di puro divertimento ludico, con la speranza spettatoriale di non riconoscersi in un donatore universale e di non diventare, quindi, la sacca sanguigna di qualche folle drogato di un futuro macista idrogeologicamente disastrato, da redimere attraverso la sensibilità, materna e genitrice, del genere femminile, la sola che può riconsegnarci al cuore (ecosostenibile) della nostra madre terra.

[1] Parte finale della trilogia ed opera molto diversa rispetto alle precedenti (i motori, le macchine e la corsa sfrenata non esistono più se non nella parte finale che strizza l’occhio anche a I predatori dell’arca perduta – e MasterBlaster non è che una versione biomeccanica e steampunk di Kreng). Opera che sembra divisa in due unità distinte, la prima parte ambientata a Bartertown – ultimo avamposto utile governato dal baratto, dove la giustizia e la civiltà si risolvono o nell’uomo contro uomo all’interno della Thunderdome oppure da una fatalistico giro di ruota; mentre nella seconda parte si dà risalto alla chiara natura letteraria (e soprattutto alla sua trasmissione orale) con riferimenti a Il signore delle mosche di Golding o al Peter Pan di Berry – oltre alla natura cristologica del risorto Max/Capitano Walker. Miller raccoglie e ri-semina.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 17/05/2015

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