Mad Max: Fury Road
Il ritorno di Mad Max è un capolavoro anarchico in cui futurismo e femminismo si incontrano in un distillato di cinema purissimo.
«La civiltà scivolò nella sua seconda era di tenebre su una prevedibile scia di sangue, ma a una velocità che nemmeno i futurologi più pessimistici avrebbero potuto pronosticare. Fu quasi come se non vedesse l’ora di finirci».
Stephen King – Cell
Non si tratta soltanto di scivolare lentamente dentro l’anarchia, di adattarsi ad un nuovo contesto privo di controllo ed ordine piegandosi alla legge del più forte. A confronto dell’apocalisse di George Miller tutti gli altri mondi devastati appaiono quasi puerili, naif. Perché per il creatore di Mad Max l’apocalisse è sempre stata anzitutto un’occasione, un invito ad abbracciare una nuova vita di caos e sangue e follia gettandosi urlanti e felici nelle braccia della furia, della violenza più cieca. Così nasce il suo medioevo post-apocalittico, il suo Guerriero della Strada, un personaggio laconico e privo di speranza cui interessa solo sopravvivere.
A Miller però non è bastato essere ricordato come l’inventore di questo fantascientifico ritorno ai secoli bui, e dopo una carriera di drammi e commedie nere, maialini senzienti e musical animati, la follia ha trovato di nuovo la sua strada verso la luce, 30 anni di anarchia covata nella sola immaginazione sono finalmente liberi di esplodere in un’opera totale che annichilisce ogni logica di blockbuster e azzera il contatore dello spettacolo hollywoodiano. Mad Max Fury Road: un capolavoro anarchico in cui futurismo e femminismo si incontrano mentre tutto corre e urla ed esplode in un’orgia visiva e sonora che rapisce per due ore senza possibilità alcuna di riscatto.
Già nel 1981, con l’uscita di Interceptor - Il guerriero della strada, Miller si disinteressava di categorie e divisioni: sequel o reboot che fosse, il secondo capitolo della saga riscriveva in buona parte la mitologia del personaggio ampliando e radicalizzando quell’ambientazione destinata a diventare storia cinematografica. Oggi Fury Road replica quella libertà, recupera Max Rockatansky e gli regala le carni e la laconica voce di un grande Tom Hardy, ma senza specificare una sua cronologia e un passato precisi lo getta in pasto ad una storia già iniziata, una parabola di vendetta e redenzione di cui a conti fatti è solo ospite perché a guidare le danze è la nuova Imperatrice Furiosa, incarnata da una divina Charlize Theron. E’ lei a mettere in moto (letteralmente) l’intero film, che come un audiovisivo sperimentale di matrice futurista vive unicamente nei termini del movimento e dell’azione.
Opera vettoriale per eccellenza, Fury Road è soltanto un unico grande inseguimento, un momento di sceneggiatura ampliato ed esteso ed ipertrofizzato da un’eruzione visiva acida che vale dieci, cento, mille cinecomics. A settant’anni appena compiuti George Miller si rivela un regista ancora più visionario e anarchico e folle di quanto credevamo, un vero uomo di cinema che con Fury Road rinnega ogni regola da manualetto di sceneggiature e rifiuta di fare del suo film un prodotto di bilancino pensato per accontentare più fasce di pubblico possibile. Radicale come tutti i sogni di gioventù covati troppo a lungo, Fury Road è semplicemente un film senza precedenti, praticamente un musical di pura azione per come dirige e coordina ogni elemento della scena attraverso un dinamismo sonoro alimentato dalle stesse chitarre elettriche e dai tamburi dei folli in corsa. Nulla viene detto e spiegato perché non serve, ogni informazione ed emozione è contenuta all’interno dell’immagine e del suo movimento, in un ritorno all’essenzialità di una macchina cinema mai spinta così su di giri. Il risultato è una gigantesca installazione mobile e visiva di sfrenata pop-art anarchica, una giostra irrefrenabile che in tutto il suo digitale non perde mai lo spessore materico dei corpi e delle lamiere, delle rocce e dei motori. Miller restituisce ed esalta ogni impatto fisico, una resa plastica valorizzata dall’attenzione maniacale ad ogni dettaglio ambientale (tutti gli oggetti del film sono sopravvissuti a loro stessi e sono frutto di riciclo e reinvenzione) e alla cromìa dell’immagine, la cui grana sporca e ruvida alterna la gialla acidità del deserto con il blu elettrico della notte. Fury Road è un distillato di cinema purissimo che regala immagini destinate a moltiplicarsi e a vivere nella mente dello spettatore.
Oltre ogni confine precostituito, Fury Road è un film che nei suoi 120 minuti praticamente non conosce soste, una storia ridotta all’osso che Miller riesce comunque a far vibrare di senso e alla quale affida molto più di quanto potrebbe sembrare. E non solo perché si avvertono pagine e pagine di mitologia immaginata e codificata dietro i tanti riferimenti appena accennati, ma soprattutto per il cuore politico e gender che anima il ritorno di Miller, mai come in questo caso in prima linea nel riportare un discorso preciso e cristallino.
“Chi ha ucciso il mondo?” è la scritta che campeggia nell’harem del tiranno Immortan Joe, derubato delle concubine che tratta unicamente come oggetti e strumenti di riproduzione. La risposta del regista australiano è chiara, il dito punta contro il potere e l’autorità maschile, divenuti qui una dittatura religiosa al confine col terrorismo in cui si vive all’insegna della pura follia e della sopraffazione, e i cui membri sono afflitti da tumori delle carni in continua espansione. L’unica via d’uscita dalla corruzione è allora la femminilità, la forza della guerriera Furiosa e la bellezza e l’amore delle madri che cerca di salvare, unica possibilità di redenzione per un genere umano arrivato altrimenti al suo capolinea. Lo scambio delle parti tra Furiosa e Max è molto più di un gioco, è una dichiarazione di intenti per un film che nonostante la sua tagline si augura un destino diverso: che il futuro non sia dei folli ma delle donne.