MADRE / Sturtevant Sturtevant. L'arte e il suo doppio
A Napoli la prima mostra italiana dedicata alla grande artista americana.
Le recenti proposte espositive del MADRE di Napoli raccontano la capacità del museo di rinascere come araba fenice dalle proprie ceneri sotto la sapiente direzione di Andrea Viliani; il ricordo degli anni critici (in cui i tagli e le polemiche con l’amministrazione locale minacciavano l’esistenza stessa dell’istituzione) progressivamente si allontana nell’avvicendarsi di mostre dal profilo internazionale. Si allontana si, ma senza cadere nell’oblio trasformandosi da cicatrice in occasione fruttuosa di scandaglio e rimessa in discussione dell’essenza del museo; così il progetto Per_formare una collezione – giunto alla sua quarta tappa ma ancora in progress – appare come una sorta di percorso di autocoscienza, una sfida ambiziosa votata all’emancipazione da un’idea di istituzione statica e impermeabile, a favore invece di un’identità sempre in divenire, che evolve anche perché in grado di proporsi come luogo di incontro e scambio e dove anche lo spettatore è partecipante attivo.
In questo processo di ridefinizione dei ruoli, tanto del museo quanto del suo pubblico, si inserisce non a caso la mostra Sturtevant Sturtevant, curata da Stéphanie Moisdon, e dedicata alla camaleontica artista americana recentemente scomparsa.
L’opera di Elaine Sturtevant (1924, Lakewood - 2014, Parigi) rifugge facili e generiche definizioni, queste infatti si sgretolano per insufficienza e fragilità davanti alla prismatica produzione dell’artista che, fin dagli esordi nel 1964, ha esplorato le espressioni artistiche più disparate passando con naturalezza dalla pittura alle installazioni, dalla performance alla videoarte. Ma c’è di più, questa mutevolezza si accompagna ad una poetica della ripetizione (ed implicita differenza) – evocata a partire dal titolo dell’esposizione – che come un’interferenza, un disturbo, mette in crisi le certezze dello sguardo. E proprio in apertura di mostra ci si trova davanti ad un’ironica dichiarazione insieme di colpevolezza e di appartenenza: un WANTED fin troppo familiare campeggia in rosso e ricopre ossessivamente tutte le pareti della prima sala. Il pattern della carta da parati non è una locandina segnaletica qualunque ma la citazione del Wanted. $ 2000 Reward del 1923 di Marcel Duchamp. Il riconoscimento è però compromesso e ad ogni passo in direzione della parete le certezze si allontanano, ciò che appare non è: il duplice ritratto fotografico, di profilo e di fronte, mostra al posto del celeberrimo dadaista la stessa Sturtevant e, seppur meno vistose, le variazioni continuano nella descrizione della “ricercata”. È una dichiarazione d’intenti, l’artista si colloca nel solco della tradizione duchampiana, ed anche una sostituzione, quasi una fusione d’identità: “Rrose Sélavy or STURTEVANT”come si legge in calce al manifesto.
Si assiste a un cortocircuito, uno strappo compiuto sulla pelle dell’unicità dell’opera: continuamente, nel percorrere le sale, crediamo di trovarci davanti alle icone maschili dell’arte contemporanea (tra gli altri Andy Warhol, Frank Stella, Claes Oldenburg etc.) e continuamente le nostre convinzioni vengono blandite e al medesimo tempo disattese da modifiche di entità variabile. Non si tratta mai di ripetizioni meccaniche né tantomeno di banali copie, ma di un raffinato e consapevole processo di appropriazione – se non di un vero e proprio gesto performativo, una sorta di reenactement – delle più svariate tecniche e modalità espressive attraverso il quale problematizzare lucidamente l’identità dell’arte e delle immagini, dei rispettivi criteri di definizione, percezione e circolazione, rimodulandone di volta in volta i confini. E così vediamo l’artista impersonare in alcuni video Joseph Beuys e ripeterne le performance provocando disorientamento su due fronti: da un lato a causa della vicinanza temporale tra l’opera “originale” e la sua ri-emanzazione – il video risale al 1971 – e dall’altro, forse in maniera ancora più estrema, perché tale riproposizione è riservata a pratiche che si forgiano proprio dell’irripetibilità dell’azione. Altrove il gioco alla dissimulazione dell’identità dell’artista è più sottile ma non meno straniante: in Johns Figure Two del 1991 ad esempio viene adoperata la stessa tecnica mista di encausto e collage su tela utilizzata da Jasper Johns con una perizia tale che quasi non genera sospetti di paternità, salvo poi imbattersi nell’angolo inferiore destro in una S che a fatica emerge dalle campiture di pittura grigia e il cui tratto impersonale – la lettera sembra prodotta da uno stencil o da un normografo – va ad inficiare lo stigma di autenticità proprio della firma.
Acuta interprete dell’eredità di colossi come Duchamp e Warhol, Sturtevant diventa a sua volta precorritrice delle emergenze estetiche attuali proseguendo l’indagine sul condizionamento delle immagini con lo stesso piglio provocatorio e irriverente: The Dark Threat of Absence/Fragmented and Sliced è una installazione del 2002 costituita da sette televisori disposti in diagonale che mandano altrettanti video in loop in cui arti di fantocci mimano mutilazioni e convulsi atti sessuali; Sex Dolls del 2006 è composta da una serie di bambole gonfiabili dalle sembianze maschili, mollemente adagiate in un ambiente rosso rilucente. La riduzione dello spettro delle pulsioni umane a una ripetizione seriale e meccanica talmente esasperata e grottesca da impedire ogni tipo di proiezione o immedesimazione assurge a metafora della condizione passiva e subalterna dello spettatore davanti al bombardamento delle immagini che caratterizza e affligge la contemporaneità.
Forte di un allestimento che non segue un ordine cronologico l’esposizione si configura come una narrazione complessa dove gli accostamenti tematici enfatizzano l’attualità e la vitalità delle questioni sollevate da Sturtevant con la propria arte. Ad eccezione del ricco e articolato pannello introduttivo (sorta di micro-saggio reperibile sul sito del museo) non vengono date ulteriori indicazioni e il pubblico è libero di confrontarsi direttamente con le opere, percorrendo e scoprendo quella che sembra configurarsi come una storia parallela dell’arte degli ultimi decenni. Questa galleria di simulacri al quadrato innesca un processo critico paradossale: proprio l’esasperazione della ripetizione diventa strumento interpretativo, un antidoto grazie al quale l’assuefazione alle immagini non può più trovare cittadinanza.