Away from the big city
Where a man cannot be free
Of all the evils of this town
And of himself and those around
Oh, and I guess that I just don’t know
Oh, and I guess that I just don’t know
Quando si inneggiava all’amore libero, si gridava di fiori nei cannoni e i fermenti culturali spingevano a nuove sperimentazioni, Lou Reed cantava di eroina, misera e perversioni sessuali. Nel 1966 pochi si accorsero dell’esordio di una band destinata a cambiare gli orizzonti della musica contemporanea, con l’album The Velvet Underground & Nico, poco apprezzato allora, oggi sicuramente una pietra miliare di indiscusso valore. Una delle band più oltraggiose della scena newyorkese, i Velvet Underground trascinano in un impasto di sonorità crude e cupe che riflettono la creatività alternativa e punk di quegli anni. Dai suoni elettrici alle sperimentazioni minimaliste, dai toni accesi di qualche vena melodica alla cantilena indie che sfiora il rumore, i Velvet Undeground hanno segnato un modo di fare musica libero, indipendente e controcorrente, spesso poco apprezzato dalla lente deformante delle industrie discografiche dell’epoca. La supervisione estetica del maestro della pop-art, autoproclamatosi manager e curatore del gruppo, dà avvio ad un connubio di arte e musica che si erge come manifesto di anni di rivoluzioni ed estasi, dove i fantasmi della droga, dell’emarginazione e dell’alienazione si fondono in un rituale edonistico per esorcizzarsi rinascendo arte.
L’incontro fatidico avviene in una delle prime serate della band, al Café Bizare. L’iperrealismo letterario di Lou Reed si lega al minimalismo di John Cale, con un approccio “metafisico” filtrato da un retaggio classico ed orchestrale, contaminato dall’elettricità e dal feed-back metallico che trasmette appieno gli impulsi dell’acustica urbana. Andy Warhol inserisce la band nelle sue performance multimediali no politically correct, disegna la famosa copertina dell’album, una banana gialla che invita a farsi sbucciare e vedere meglio e impone la propria musa valchiria Nico, la stessa che si concede un’apparizione ne La dolce vita e che ora presta la propria voce a tre canzoni dell’album d’esordio. Il documentario che prende il titolo dallo stesso album, The Velvet Underground and Nico: A Symphony of Sound, si impone come fotografia in bianco e nero dei colori folgoranti che illuminano la Factory dell’artista, uno spazio ideologico dove vita e arte si fondono e trascendono i confini.
Le canzoni di The Velvet Underground & Nico passano dalla malinconia al cinismo, con note acute e dissonanti tanto da rendere visivi gli effetti degradanti delle droghe, i trip allucinogeni, restituendo quasi un folk da acido. La sinestesia artistico-musicale si converte in impulso visivo nel documentario di Warhol, dove il sottofondo musicale si fa atavica discesa in un inferno buio e disturbante, con zoom e scatti dell’obiettivo a replicare un disagio ottico e sonoro, proiezione di uno stato interiore. Un loop audiovisivo che rimanda dettagli di mani, capelli, strumenti e occhi fino a sfocare nell’incertezza di un amalgama amorfo e mellifluo. I re della trasgressione si ritrovano uniti in un film che testimonia il trascolorare dell’immobilità di lunghi piani-sequenza in un andirivieni vertiginoso che rompe i principi del documentario e vince i bordi del quadro, in inquadrature elastiche che sfidano le leggi fino a sciogliersi nella perdita del fuoco. I Velvet Underground si riallacciano alle correnti beat e lasciano rivivere le realtà nascoste nelle righe di Burroughs, Leopold von Sacher-Masoch e Baudelaire. Le distorsioni tipiche della band si uniscono a esibizioni uniche dove il rock fa da sfondo a masturbazioni simulate e assunzioni di droghe. Etichettato come apologeta di morte e distruzione, il cantore della New York sporca urla in una prosa scarna la bruttura esterna, la banalità e la perdizione, come tappe inevitabili di un lungo viaggio che culmina nel raggiungimento della spiritualità più pura.
Il documentario di Warhol è disadorno come i versi non cantati e la macchina da presa si poggia ingombrante a cronaca dell’indicibile. Effetti di bolla acquea e rimbalzi da boomerang sono la paranoia visiva della perdita del controllo. Per un risultato che porta il marchio indelebile dei loro artisti. The Velvet Underground & Nico è un’opera che registra le influenze passate e si proietta nel futuro, coronamento dell’omonimo album dove la violenza si mescola all’amore, nella connivenza di psichedelia e avanguardia in un ritratto generazionale di autodistruzione e pentimento. Lo sperimentalismo di Warhol si confonde con le distorsioni sonore dell’universo velvetiano, in un duplice commento che rende omaggio alla forza impetuosa e travolgente di due arti che si innalzano a vicenda, una polisemia figurale e sonora fatta di impressioni da interpretare.