Siamo sicuri di non scadere nel mero luogo comune nel dire che le cose più belle, molte volte, sono il frutto del caso più fortuito. Come diceva qualcuno, fare delle scoperte non è cercare nuove cose ma guardare con occhi nuovi. Gli occhi, finalmente nuovi e maturi, nel cinema documentario italiano ma non solo sono quelli buoni di Andrea Segre, protagonista da qualche settimana su PB di una retrospettiva critica, più che meritata vista tutta la sua, seppur breve, carriera artistica, fin qui costruita a forza di lavoro e idee, anteponendo al budget, a volte davvero irrisorio, un modello di visione che ha scardinato tutti i tòpoi fin qui registrati nel cinema del reale.
E i luoghi questa volta sono quelli di una nuova periferia, Ponte di Nona, una seconda Tor Bella Monaca, a sua volta seconda Centocelle/Quarticciolo per chi le conosce, a 15 km dal centro di Roma tra la via Prenestina e la Collatina, dove hanno trovato alloggio popolare molte famiglie costrette a lasciare le proprie case storiche nel cuore e nelle arterie pulsanti di una città sempre più in mano a ricchi faccendieri affaccendati a ingrassare i loro conti in banca. E tra queste famiglie c’è quella di Neda, cinquantenne testaccina doc, una che “da bambina il nostro parco giochi era il Colosseo non ancora recintato e tolto alla città”. Neda ci fa da Virgilio all’interno di una moderna banlineu, che sulla carta sarebbe dovuta diventare una nuova centralità, figlia di un modo altro di progettare e costruire – come ci dicono gli spezzoni di un video pubblicitario che due dei protagonisti vedono su Youtube ad opera dell’architetto progettista del nuovo quartiere – lasciando al passato gli scempi partoriti nelle torri casiline, piuttosto che nel serpentone del Corviale, e invece altro non ha prodotto se non palazzi tutti uguali dai colori pastello per imbellire e creare una facciata di comodo, fumo per gli occhi di chi chiedeva un alloggio spettante di diritto. Siamo ancora lì, in quel guado, che qualcuno ha chiamato lotta alla casa, rivendicando il diritto sacrosanto di un alloggio sopra la testa, rivendicando il sacrosanto diritto di crearsi un avvenire per sé e per la propria famiglia.
Prodotto nato per caso si diceva. Sì, perché l’autore ha dichiarato che a Ponte di nona ci è finito perdendosi in macchina, incontrando lì una micro realtà che a suo dire non poteva ignorare, una realtà che ha risvegliato un intransigente militante, una voce che si è unita a quel coro inascoltato dalle amministrazioni non solo capitoline impegnate soltanto a spartire e spartirsi posti pubblici, nomine e privilegi, piuttosto che tendere l’orecchio ai più deboli, ai più bisognosi, a chi paradossalmente fa muovere l’ingranaggio della città. Ma non è solo questo Magari le cose cambiano, prodotto ancora una volta dallo splendido e necessario collettivo Zalab qui in collaborazione con Off!Cine, non è soltanto lotta per la casa; come spesso succede inquadrando una micro realtà, accucciandosi a vedere da un buco della serratura, ci si apre un mondo che stando lontani non avremmo mai visto, e così mentre pian piano il documentario lievita si affacciano le tematiche più care all’autore veneto, l’integrazione e quel basso razzismo che un po’ ci ha toccato tutti da quando si sono aperte le frontiere, il cui tormentone trito e ritrito è: “questi vengono a rubarci il lavoro a noi, ma non c’ha diritto prima un italiano a casa e lavoro?”. Quante volte le nostre orecchie sono state costrette ad ascoltare simili frasi fatte, figlie di un ignoranza incolpevole verrebbe da dire, se non di un ragionamento e di una cultura che latitano, ed ecco che qui il prezioso lavoro in sceneggiatura da parte del nostro si fa cronachistico e antropologico, andando a scovare nelle teche Rai interviste agli abitanti di quelle che negli anni sessanta e settanta erano le nuove periferie appena nate e che oggi non lo sono più, e qui il titolo del doc ci viene in aiuto per la risposta.
No. Le cose non sono cambiate affatto. Difficilmente cambieranno. Lo sviluppo non ha prodotto alcun progresso in campo sociologico/abitativo. Non nel modo di ascoltare e capire un mondo oramai fortemente globalizzato, glocalizzato direbbe Bauman. E anzi di regresso bisognerebbe parlare, che il buon umore non basta più, che il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà non bastano più. La lotta tra poveri è rimasta immutata, oggi come allora. Cancellata dalle agende della politica – semmai ci sia stata –, in mano ai vari Caltagirone, Scarpellini o Toti del caso pronti a sfregarsi le mani davanti all’ennesimo piano regolatore della città, in attesa di produrre brutture architettoniche sotto ogni punto di vista che altro non fanno se non accrescere l’ansia di chi già vive un esistenza ai limiti della sopportazione. L’ansia presente nella vita di tutti i giorni di chi come Neda va avanti stando attenta all’euro o ai due euro, fiduciosa, però, che ci sarà un Andrea Segre di passaggio, lì, con le orecchie tese, per caso, e che sarà pronto con la sua videocamera ad immortalare la realtà per quella che è o che dovrebbe essere.
“C’è ancora un’Italia viva, che lotta, ed è l’Italia che preferisco” è postato alla fine del blog di presentazione di Magari le cose cambiano, e di questa Italia Andrea Segre ne è un attivo e aggraziato partecipante.