Hawa
Dopo lo scandalo di "Mignonnes", un film che inverte l'approccio approdando a forme di igiene morale tanto pudiche quanto ipocrite.
Quando, tre anni fa, come esordio Maïmouna Doucouré presentò Mignonnes (2020) al Sundance Film Festival aggiudicandosi il premio per la miglior regia, quello che suscitò fu un’ondata incontrollata di polemiche, andando a definire un vero e proprio caso mediatico: i giornali ne parlavano, i social ne parlavano, tutti parlavano del “film scandaloso” che, in realtà, di scandaloso aveva ben poco.
A essere messa in scena era la storia di Amy, undicenne senegalese delle banlieue parigine, e il rapporto conflittuale famiglia-società che emergeva a seguito dell’amicizia con un gruppo di ragazze preadolescenti, con le quali formerà una compagnia di danza. Questi balli, però, attingeranno dalle varie realtà filtrate dai social network, portando ad inserire nelle coreografie una serie di passi sessualmente suggestivi. Ciò che voleva, o doveva, essere una critica sociale nei confronti della sessualizzazione della donna e la conseguente influenza che avrà sulle generazioni successive, si trasformò però in tutt’altro agli occhi del pubblico: l’esaltazione dell’iper-sessualizzazione dei minori. Le critiche imperversarono ancor più con la distribuzione su Netflix e il relativo poster, che portò a una definitiva demonizzazione collettiva: le persone smisero di parlarne perché andava dimenticato (in quanto sbagliato), i cinefili smisero di parlarne perché non era necessario ricordarsene (in quanto molto mediocre).
Con il secondo lungometraggio, quello che la Doucouré sembra attuare è quindi una specie di atteggiamento di riparazione della sua immagine pubblica e artistica, un tentativo di scostarsi da quei caratteri controversi per lavorarci in totale opposizione, ricordando – senza alcun accostamento qualitativo, sia chiaro – un approccio non dissimile da quello che D.W. Griffith ebbe con Intolerance, dopo le polemiche subite con The Birth of a Nation per le questioni razziali. Hawa, proiettato al Sottodiciotto Film Festival di Torino e ora disponibile su Prime Video, appare così come l’esatto opposto di quanto costruito in precedenza: la protagonista, il cui nome dà il titolo al film, è una ragazzina di quindici anni che vive con la nonna gravemente malata, motivo che la spinge a dover trovare qualcuno che possa prendersi cura di lei dal momento in cui rimarrà sola.
Il tema della sessualizzazione subisce un totale ostracismo, ravvisabile su più livelli: personaggi, atteggiamenti, rapporti sentimentali, persino concerti e coreografie, tutto viene deprivato della componente sessuale, in favore dell’ideologia dell’igiene morale, tanto pudica quanto ipocrita. Un’operazione che cerca di scivolare lontano e con estrema attenzione da qualsiasi tipo di implicazione anche solo vagamente sessualizzante. L’assenza di questa componente, però, sembra assumere la forma di un estremo moralismo dal falso retrogusto, che mette in luce l’incapacità della Doucouré di affrontare questioni di rilevanza sociale in maniera adeguata. Il dramma di Hawa, il suo abbandono e l’indifferenza da parte dello Stato e della comunità, rimane costantemente in una condizione di indefinitezza (tanto fattuale quanto emotiva), un non-rispecchiamento impossibilitato a trasmettere un “qualcosa” di concreto allo spettatore, restituendo esclusivamente un tessuto sociale profondamente fittizio e ipocrita: da ragazzine – che potrebbero benissimo essere le protagoniste di Mignonnes – presentate come delle fan sfegatate che idolatrano gli astronauti andati nello spazio (veramente?) a superstar musicali dal cuore d’oro portatrici dei più corretti e sani valori morali.
L’ipocrisia strutturale del film sembra essere perfettamente sintetizzata nell’ossessione, verrebbe da dire quasi pornografica, di estetizzare in modo eccessivo tutto ciò che viene mostrato: il senso delle questioni sociali lascia il passo alla ricerca di un’estetica colorata e virtuosa – non così dissimile dal look di case che puntano su una preponderante componente digitale, sempre molto riconoscibile, come la statunitense A24 – che finisce per passare come vera protagonista. L’approccio a un qualche tipo di verosimiglianza viene completamente spazzato via da luci colorate improbabili, punti macchina immotivati, riflessi impensabili, ambientazioni approssimative e una più generale composizione dell’inquadratura che sembra pensare più al “bello” che non al senso, al messaggio da comunicare, come un significato ulteriore che dia maggior peso o credito alle posizioni critiche-sociali. Tendenza a cui non sembra impermeabile nemmeno la piccola Hawa, a partire dalla sua raffigurazione estetica totalmente fuori da qualsiasi tipo di verosimiglianza: acconciatura esuberante e sempre perfetta, occhiali a “fondo di bottiglia” che rimarcano la sua desessualizzazione e una complessiva costruzione del personaggio che non trova connessione con logiche empatiche o di plausibilità, ma piuttosto con un atteggiamento che punta al bizzarro, allo stralunato e alla sfera della fantasia; ricercando così più una disperata collocazione iconografica nell’immaginario, che non una coerenza diegetica.
Nondimeno, anche le situazioni in cui si caccia: dal nascondersi in una cassa con la quale attraverserà tutta la città per intrufolarsi a un concerto, alle varie peripezie notturne per cercare di incontrare l’ex First Lady dalla quale vorrebbe essere adottata, una ricerca simbolica (quasi allegorica) i cui risultati sembrano già chiari fin dall’inizio, con tanto di epifania finale. Tutto sembra vertere verso un totale allontanamento dello spettatore che, di fronte a un’opera del genere, non può fare a meno che trovarsi in una condizione di completo spaesamento. Come guardarla? Che approccio avere? Cosa dovrebbe esserci di intrattenente o interessante? Queste le domande che probabilmente attraverseranno le menti del pubblico mentre cerca di capire quale fosse l’intenzione, il focus, il centro, il vertice del film: divertire con le peripezie della ragazza, portare a un qualche tipo di empatia per una prossima orfana, cercare magia in una città ricca di suggestioni fantasiose, dar credito a una (in)diretta ma interessante critica sociale, oppure, più semplicemente, ripulire la propria immagine con un film per famiglie tanto moralista quanto socialmente inattaccabile? “Una sovralettura” direbbero alcuni, “un processo alle intenzioni” direbbero altri, ma a visione terminata impossibile non rifugiarsi in questa convinzione confortante, come meccanismo di autodifesa: perché sicuramente la Doucouré avrà “ripulito” la sua immagine dall’onta di Mignonnes, ma a quale prezzo? Quello d’essere diventata la regista di Hawa, uno dei film più innocui e sbagliati degli ultimi anni. Dalla padella alla brace.