Historias Extraordinarias
Wanderlust digitale in territori pre-cinematografici, spedizione al cuore di un filmmaking che (ancora) non esiste.
L’unica certezza di fronte a Historias Extraordinarias, è quella di avere a che fare con un prototipo. Come per ogni prototipo, anche per il primo film narrativo di Mariano Llinás e del Pampero Cine occorre ripensare i criteri di giudizio: quelli che abbiamo, codificati più di cento anni fa dalla lentissima, quasi immobile evoluzione del mezzo cinematografico, non sembrano aiutarci più di tanto. Se persino il cinema sperimentale si è da decenni appiattito sui modelli dei propri santi patroni, figurarsi quello narrativo - figurarsi quello narrativo di genere. È proprio nella convergenza immaginaria tra installazione museale, blockbuster epico e b-movie che Llinás intende concepire un film che, regole alla mano, non si può fare. Rianimando gli scheletri delle più vecchie teorie, Historias Extraordinarias dà vita ad un modello semplicemente diverso, forse non replicabile nello specifico, ma indicativo di potenzialità intrinseche al mezzo troppo precocemente date per esaurite.
Cos’è, in concreto, Historias Extraordinarias: tre storie di suspense senza inizio e senza conclusione, ognuna strutturata su una decina di ulteriori storie, ognuna con i propri eroi, comparse, divagazioni e nuove storie ancora. In oltre quattro ore totali, le lande argentine (che ancora oggi danno il nome alla casa) diventano il foglio bianco su cui liberare il moto di tre protagonisti-vettori. Sono sguardi senza voce, negazioni di personaggi senza nome né passato, alla deriva nel labirinto di storie umane che disegna l’epopea. Il loro discorso è indiretto, senza dialoghi: un narratore mai inquadrato racconta, il film ne segue le parole. Un pensiero che si forma in immagini nel momento stesso in cui è enunciato, appunti visivi dal taccuino di una vecchia betacam.
Ridefinendo i dogmi dello storytelling, Historias Extraordinarias riallaccia il cinema a una matrice (anche) letteraria spesso messa in secondo piano nella genealogia del medium. Sono gli autori stessi a chiarirlo nella presentazione-manifesto che accompagnò il film a Torino: «Due passioni reggono il corso di queste storie - la felicità di viaggiare, e la gioia di narrare». Raccontare e (di)vagare: allo spettatore il compito di districare i collegamenti (formali, tematici, narrativi) tra le infinite parti che compongono il trionfo, costellazione vertiginosa il cui senso sta, come sempre, nello sguardo di chi vi si perde. Barocchismo esasperato e/o improvvisazione ludica: l’impossibilità a tirare una linea tra le due apparentemente opposte modalità creative ci dà la profondità di questo flusso ibrido, e delle sue potenzialità espressive.
Mariano Llinás vede nel cinema una terra inesplorata, e nel reale un caos di fotogrammi che i vecchi codici non sanno più riarticolare. Historias Extraordinarias esiste dunque anche come bonario sfottò alla pigrizia endemica dell’Industria, delle solite formule e le solite forme - se per “forma” di un film ne intendiamo la struttura interna di rapporti significanti, seguendo la formulazione del recentemente scomparso e pochissimo ricordato David Bordwell. Ridiscutere questi rapporti diviene allora la priorità - portare il medium dove ancora non si trova, a costo di farne terra bruciata nel ritorno quasi sprezzante all’amatorialità. Audiovideo da home-movie, attori non professionisti guidati in diretta, disintegrazione dei tre atti in cacofonie organizzate: nell’ansiosa ricerca di una futuribilità per il cinema che caratterizza questi anni, cos’è poi Historias Extraordinarias (e il suo splendido compendio Trenque Lauquen) se non la polarità opposta e complementare alla trascendenza tecnico-tecnologica suggerita da James Cameron con i suoi Avatar? Ironica ma significativa coincidenza come le date di uscita del dittico della Weta e quello del Pampero Cine combacino: un periodico insistere che tutto è ancora vuoto, da costruire, che si parta dal tutto o dal niente.
Llinás, Citarella, Mendilaharzu e Moguillansky avevano chiara dall’inizio la meta di questo apparente nomadismo: «dimostrare e dimostrarci che l’avventura e il rischio sono ancora territori possibili per il cinema; che un film può essere fatto sulla strada, costituito da quell’infinito labirinto di cammini».