Il primo re
Il regista restituisce, in un racconto felicemente essenziale, un universo primitivo e feroce in cui la violenza è l’unica soluzione per la sopravvivenza
Tra l’esigenza di coinvolgere un pubblico ampio attraverso un linguaggio che sia anzitutto corporeo e istintuale e quella di esprimere la propria visione autoriale svincolandosi da prevedibili aspettative imposte da un soggetto tanto eloquente (la leggenda, il mito di fondazione) sta il nodo che è al centro dell’operazione complessa e faticosa, ma coraggiosa e avvincente, dell’ultimo film di Matteo Rovere. Film che muove, insomma, da presupposti che vivono un equilibrio assai precario e si impernia dunque su una sfida di non facile risoluzione. Per audacia e radicalità si oscilla qui tra l’indimenticabile Valhalla Rising (più astratto, onirico e introspettivo), l’estenuante e disperato Revenant e – per certi aspetti - il crudele e spettacolare Apocalypto. Ma sono input e suggestioni, quelle offerte dai film citati, che Il primo re assorbe e rimescola abilmente in un riuscito amalgama assolutamente nostrano.
L’epica, la leggenda, gli eroismi vengono – a un primo livello - rigettati per lasciare il posto al racconto della quotidiana lotta per la sopravvivenza dei protagonisti, che si muovono in un mondo inospitale e selvaggio dove gli Dei sono presenza minacciosa e incombente, il fuoco si teme e si adora, la spiritualità è angosciosa superstizione e le foreste sono infestate da spettri oltre che popolate da tribù bellicose e spietate. Remo è un semplice pastore improvvisatosi condottiero di un manipolo di uomini rabbiosi e logorati dalla fame, assieme ai quali, attraverso boschi e paludi, fugge dai cavalieri di Alba in cerca di una terra dove fondare una nuova città.
In breve Rovere restituisce, in un racconto felicemente essenziale, un universo primitivo e feroce in cui la violenza è l’unica soluzione per la sopravvivenza e ogni relazione – uomo-natura, uomo-Dio, uomo-uomo – è inevitabilmente scontro, opposizione, lotta. Se epica ed eroismo ci sono, non sono mai il presupposto ma sempre e solo la conseguenza di un agire – quello di Remo, continuamente chiamato a mettere alla prova la propria forza fisica e morale – estremo, extra-ordinario.
Sorretto dalla presenza magnetica di Alessandro Borghi, la cui esibita fisicità è strumento espressivo/comunicativo, dall’eccezionale fotografia di Daniele Ciprì (tutta penombre, riflessi di fuoco, giochi luce che filtra tra gli alberi) e dalla scelta, indovinatissima, di far parlare i personaggi in un protolatino cupo e masticato, Il primo re è un film sfacciato e intrepido, capace di rischiare tutto e – nonostante qualche perdonabile difetto – di vincere a pieni voti. Non teme il ridicolo nell’esaltazione e nella reiterazione della violenza come (auto)affermazione vitalistica, nella celebrazione della forza virile, nella descrizione del delirio di onnipotenza di Remo, perfetta rappresentazione di quella hybris che spesso accompagnava le gesta degli eroi del mondo greco. E tuttavia, allo stesso tempo, non mente: perché i corpi che qui vicendevolmente si aggrediscono e si straziano non sono (per fortuna) quelli levigati e tutti identici degli spartani di 300, ma sono corpi imperfetti, sporchi, spossati. E il Lazio non è più il territorio ameno e bucolico di un immaginario ampiamente diffuso, ma uno spazio sconosciuto e ostile, fatto di acquitrini insidiosi e foreste fitte e nebbiose, così come il (proto)latino non è ancora la lingua del nomos – la legge - ma piuttosto quella della physis, una natura arcaica e astorica che l’uomo non ha ancora, neppure lontanamente, assoggettato.
E’ innegabile, insomma, che al netto di qualche assolvibile squilibrio narrativo (la tensione si perde nella seconda parte, complice forse una sceneggiatura “già scritta” dal mito) l’ultimo film di Rovere risplenda per ambizione, forza e limpidezza.