Non essere cattivo
In questa personale via crucis fatta di dolore, lacrime e sangue i personaggi lottano e amano come disperati, cercando di sfuggire alla tragica sorte alla quale sono destinati sin dalla nascita.
L’atmosfera crepuscolare di Non essere cattivo, ultimo film di Claudio Caligari, non deriva tanto dalla sua natura postuma, spada di Damocle che pendeva sull’opera ancora prima dell’inizio delle riprese - in virtù delle pessime condizioni di salute del suo autore - ma piuttosto va rintracciata nella materia narrativa, nei corpi e nei volti dei suoi personaggi messi in scena in tutta la loro disperata vitalità. Siamo nella Ostia dei nuovi sottoproletari anni 90, colti nel passaggio verso il proletariato. Una trasformazione insignificante, apparentemente. In fondo morti di fame erano e morti di fame continuano ad essere. In modo non molto diverso da Mamma Roma tra l’altro, dove Anna Magnani abbandonava la vita di strada per lavorare al banco di frutta e verdura al mercato. Cambiamento che ne rifletteva un altro, non meno importante: il trasloco dalla borgata di Casalbertone alle nuove costruzioni dell’INA-casa al Quadraro; tentativo di riscatto sociale che la donna pagava poi a carissimo prezzo con la morte del figlio Ettore. In questo caso il passaggio è apparentemente più soft anche se non meno traumatico: dalle pasticche e le corse a perdifiato verso il nulla ai tanti cantieri che stanno ridisegnando il volto del quartiere. Segno di una trasformazione anche urbanistica e non solo sociale. La differenza tra le due opere riguarda naturalmente l’epoca in cui avviene questo ulteriore slittamento. I protagonisti del film non sono semplicemente dei sottoproletari, ma dei veri e propri sopravvissuti, tracce residuali di un altro tempo antropologicamente e culturalmente differente e ormai prossimo alla fine. Con Mamma Roma, o meglio, con suo figlio, se ne andava un ragazzo come tanti. La morte di Ettore marcava la tragica conclusione di un’esistenza, per quanto paradigmatica potesse essere, e non di un’intera generazione, mentre le sorti di Vittorio e Cesare, riflettono quelle degli ultimi rappresentanti di una classe sociale che negli anni 70-80 è stata annientata prima dalla mutazione antropologica di pasoliniana memoria e poi dall’eroina, come raccontato mirabilmente dallo stesso Caligari nel celebre Amore tossico.
E infatti la (ristretta) filmografia del regista funziona anche come straordinario resoconto della storia tossica di questo paese, dall’eroina e la coca 70-80 fino alle droghe sintetiche che imperversano nella metà degli anni 90. Momento storico in cui si fa il bilancio delle vittime, la conta dei caduti e dei superstiti. Si veda in questo senso il ruolo che occupa l’eroina, meno diffusa di un tempo eppure ancora presente con tutte le ferite e le cicatrici che hanno segnato il suo lungo e tragico passaggio: la siringa con cui inavvertitamente si ferisce Cesare mentre gioca a pallone sulla spiaggia, l’aids trasmesso dalla sorella di Cesare alla figlia. Gli anni 90 di Caligari sono come un lungo hangover in cui ci si trascina a fatica alla ricerca di quel qualcosa in più che possa chiudere in bellezza la serata, o forse rinviare anche solo di qualche ora il momento del ritorno a casa, che poi coincide con il confronto con le proprie miserie. Che non hanno niente a che vedere con il lavoro o con la crisi economica. Quella è venuta dopo e poi, in fondo, ai sottoproletari non è mai interessato cercare un lavoro. Ricordate Accattone? Ecco, prendete l’immagine del gruppo di amici che stazionava al baretto in via Fanfulla da Lodi e trasferitelo ad Ostia. Cambiano facce e scenari ma non l’approccio corsaro alla vita. Le difficoltà arrivano dopo, quando capisci che tutti i furti o lo spaccio del mondo non ti faranno mai davvero svoltare. Troppo grande la tentazione di attingere dalla propria mercanzia. No, il momento dello sballo è finito. O almeno così sembra pensarla Vittorio, convinto dalla nuova fidanzata a mandare all’aria tutto quel niente che aveva contraddistinto la sua vita fino a quel momento, per avere in cambio un’esistenza normale, o una parvenza di normalità, con tanto di focolare domestico e una famiglia che ti aspetti per la cena, e che magari abbia persino voglia di sapere come ti è andata la giornata. Il prezzo da pagare è proprio il lavoro, un impegno gravoso ma allo stesso tempo necessario. Sembra facile a dirsi, molto meno a metterlo in pratica: le tentazioni di un tempo sono sempre lì, pronte a trascinarci giù nella polvere. Ne sa qualcosa Cesare, che dei due è quello senza dubbio più fragile. Forse a causa del suo privato, segnato come detto dalla morte della sorella e dalla malattia della nipote. Ma a Caligari non interessa la sociologia spicciola, pronta a spacciarti risposte a buon mercato. Anche perché il punto è che non ci sono proprio risposte. E poi comunque, anche se ci fossero non si saprebbe dove andarle a cercare.
L’unica verità che conta per il regista è quella dei corpi messi in scena che faticosamente resistono ai colpi, restando agli angoli di un ideale quadrilatero in attesa dell’ultimo round. Non essere cattivo si posiziona proprio qui, nella frazione che precede il suono della campanella, come in un incontro di pugilato. In questa personale via crucis fatta di dolore, lacrime e sangue i personaggi lottano e amano come disperati, cercando di sfuggire alla tragica sorte alla quale sono destinati sin dalla nascita, per “privilegio di anagrafe”. Qualcuno resterà in piedi, altri cadranno allo scadere. Non è un caso che proprio l’eroina svolgerà un ruolo decisivo nel finale. Come una condanna dalla quale non si può sfuggire. Ma allora che senso ha tutto questo? La risposta va rintracciata nell’umanità che il film descrive con un’intensità rarissima. Senza giudizi o ambiguità di sorta. Ancora una volta dopo L’odore della notte si coniugano influenze pasoliniane, rintracciabili nel contesto sociale e nei caratteri, e suggestioni visive scorsesiane; e proprio il dialogo costante tra queste due anime, apparentemente molto distanti, permette a Caligari da un lato di svincolarsi da un’estetica piattamente realistica o di derivazione banalmente pasoliniana, e dall’altro di schivare ogni tentazione da bignamino sociologico. Perché prima di tutto vengono i personaggi, ed è su di loro che si stabiliscono i confini dell’inquadratura e soprattutto il perimetro del set, mai tanto sfuggente ed esploso in una galassia infinita di piccole isole lontane tra loro. Ci sono i bar nei quali si inganna il tempo, i locali esclusivi in cui è impossibile accedere, neanche con la giacca di ordinanza, e poi le baracche di fortuna, il cimitero, e soprattutto il mare, che alla sola vista ti fa venire i pensieri. E allora tanto vale non guardarlo proprio. Al suo posto va benissimo anche solo una carta da parati con il mare tropicale al tramonto. Illusione a buon mercato di fughe impossibili lontano da quella vita balorda. Proprio come la pubblicità nella quale Al Pacino/Carlito proiettava prima se stesso, nel suo desiderio di fuga, e poi l’amore della sua vita, Gail, negli ultimi istanti prima della morte. Ma non tutto è perduto: in questi campi sconfinati di lapidi e croci c’è ancora una speranza che alberga nel cuore dei sopravvissuti, pronti a caricarsi sulle spalle le sorti di chi, presto o tardi, prenderà il loro posto.