Medianeras - Innamorarsi a Buenos Aires

Opera prima che si contraddistingue per una delicata ironia ed una messa in scena ricercata e a tratti molto intelligente che lancia uno sguardo non banale sull’isolamento e la solitudine urbana

Nell’incipit, in stile documentaristico, si susseguono in veloce montaggio belle inquadrature di brutte architetture, mentre una voce over (che scopriremo appartenere al protagonista Martin) mette in relazione l’isolamento urbano con il caos e il disordine estetico di una megalopoli che ha voltato le spalle al suo fiume. Si tratta di Buenos Aires, ma potremmo riconoscervi una qualsiasi altra metropoli. Martin vive praticamente confinato nel suo monolocale “scatola di scarpe” di 40 metri quadri. E’ un web designer e tramite internet fa tutto, inclusa la spesa. In montaggio alternato alle sue giornate, ci vengono raccontate quelle di Mariana, architetto che la crisi economica ha portato a fare la commessa in un negozio dei cui manichini ha ingombro l’appartamentino.

I palazzi in cui i due vivono si fronteggiano, ma loro non si conoscono. L’incontro conclusivo e lo sbocciare dell’amore s’intuisce sin dalla locandina e dal sottotitolo italiano: un po’ troppo sbrigativamente, il lieto fine chiude la pellicola le cui aspirazioni, da questo punto di vista, mostrano candidamente la corda. Ma tutto ciò che avviene prima è raccontato in modo ambizioso, con una accattivante originalità di sguardo che consente a Medianeras – Innamorarsi a Buenos Aires di collocarsi un gradino sopra rispetto anche alle più intelligenti fra le commedie romantiche hollywoodiane di questi anni.

Gustavo Taretto, classe 1965, autore sinora di alcuni cortometraggi premiati anche in festival internazionali, sostiene che il suo film si basa su quattro pilastri. Primo, la città: caotica, contraddittoria, ostile. Disturbante e al tempo stesso affascinante. Secondo, la solitudine urbana (“Nella metropolitana, 100 persone sentono l’indifferenza reciproca quando tornano a casa da lavoro. Invece di farci sentire più calmi e sereni, l’essere circondai da gente ci rende nervosi”). Quindi, l’isolamento (“Internet mi ha avvicinato al mondo ma mi ha allontanato dalla vita”, dice Martin). Infine, la ricerca dell’amore. L’amore è la soluzione ma è difficile da trovare: anche più di quanto sia difficile per Mariana trovare Wally, nei libri per bambini della serie del disegnatore inglese Martin Handford.

Martin e Mariana fanno incontri con altri uomini e altre donne, che puntualmente si rivelano promesse non mantenute. I pezzi non combaciano mai. Le solitudini si sfiorano soltanto prima di tornare a separarsi.

L’opera prima di Gustavo Taretto è intelligente nella scrittura e possiede un’innegabile cura per la messa in scena. Un bimbo va in triciclo su un balcone poco più ampio dello stesso triciclo; un cane si è suicidato gettandosi da un altro balcone, e causando un buffo incidente stradale; Mariana ha la casa invasa da manichini, con uno dei quali una sera ha quasi un rapporto erotico (per poi dirgli: “non farti illusioni: è stato solo sesso”). Una mattina, uscendo di casa, Mariana nota un pianoforte che viene issato su un grattacielo: da quel momento la sua solitudine è spesso contrappuntata da musica di pianoforte eterodiegetica che Mariana sente risuonarle in testa, e che per frustrazione, giacché le rammenta la solitudine, prova a interrompere battendo una mano su una parete.

In due occasioni la pellicola torna al registro semi documentaristico dell’incipit. La prima è quando Martin parla dei germogli che crescono nel cemento – e Taretto ce ne fa vedere decine – ammettendo che quelle testimonianze dell’incontenibile vitalità della natura gli fanno percepire più chiaramente la propria fragilità. La seconda dà ragione del titolo del film, e prepara l’esito finale dell’incontro fra i due protagonisti. Le mediane ras sono le pareti cieche, prive di finestre, dei palazzi accostati uno all’altro – pareti che spesso ospitano giganteschi affreschi pubblicitari. In queste pareti, a Buenos Aires, a volte spuntano allegre finestre abusive. Come una pacifica rivoluzione dettata dalla ricerca di luce, di aria, di respiro, in appartamenti sempre più piccoli che hanno reso la vita asfissiante. I nostri protagonisti creeranno due finestre di questo tipo: due aperture che come loro si fronteggiano, collocate, entro le rispettive gigantografie pubblicitarie, nelle particolari posizioni visibili nel trailer, in odore di trovata “cult”.

La cura di Taretto per la messa in scena sfocia nel gusto per una composizione ricca e complessa dell’inquadratura, che aspira ad avere un nume tutelare in Jacques Tati. Non manca l’omaggio esplicito: Martin è inseparabile da un dvd di Playtime.

Il registro linguistico adottato dal regista argentino è felicemente contaminato: frequente ricorso allo split-screen, animazioni, foto d’epoca, segni grafici che invadono la pellicola. Al punto che, con queste contaminazioni linguistiche che rimandano alla polisemia digitale, nella sua descrizione del caos esistenziale di una metropoli contemporanea Medianeras non è poi così lontano dal richiamare con registro diverso Due o tre cose che so di lei di Jean-Luc Godard.

Il tono fiabesco conferisce al film una felice leggerezza, che si coniuga armoniosamente alla messa in scena arguta e brillante. Il che, unito a una sceneggiatura ricercata, fa di Medianeras un’opera che merita di essere ricordata, non semplicemente piacevole a vedersi. I limiti del film si avvertono piuttosto nel finale, dove la necessità del lieto fine fa assumere improvvisamente il fiato corto alla pellicola. Nonostante sia pure efficace la trovata di affidare al simpatico maglione a strisce bianco e rosse di Willy il compito di far finalmente incontrare i due, gli elementi di affinità che possiedono Martin e Mariana non sono sufficienti a garantire che fra di loro debba necessariamente funzionare, come ci viene invece assicurato da un finale che omaggia la formula classica delle fiabe “e vissero felici e contenti”. Taretto sembra essersi accontentato di far confluire il bell’impianto che ha costruito in nient’altro che l’ennesima variazione di una ben risaputa favola. Dei suoi quattro “pilastri”, quello che prevale alla fine è l’ultimo: l’amore quale soluzione appagante, panacea di tutti i mali. Una soluzione proposta con un po’ di faciloneria, al punto che il registro finemente ironico del film rischia alla fine di scadere tramutandosi in furba scorciatoia. Pazienza: gli altri tre pilastri del film erano stati affrontati da Taretto in modo ben più stimolante.

Autore: Stefano Santoli
Pubblicato il 26/09/2014

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