Melbourne
Una costruzione narrativa esemplare per un thriller fra quattro pareti
Amir e Sara stanno per cambiare vita. I due sono in procinto di partire insieme dall’Iran per andare a studiare in ’Australia, per godere di preziosi anni di libertà che li renderanno definitivamente adulti e indipendenti. L\'ansia degli ultimi bagagli da preparare serpeggia per la casa oramai vuota, tra cellulari che squillano e videochiamate sul portatile. Nella stanza da letto dorme la figlia neonata di un vicino, lasciata frettolosamente dalla babysitter qualche ora prima con la promessa di tornare a riprenderla a breve. Ma quando il vento fa sbattere la porta a vetri rompendola in mille pezzi, Amir, corso dalla bambina che credeva sveglia e in lacrime, la scopre immobile. La piccola non respira.
Melbourne pone una domanda schietta allo spettatore: tu cosa faresti?. Come in uno studio antropologico il regista Nima Javidi, qui al suo esordio cinematografico, colloca i protagonisti in un contesto specifico, scatena un tragico deux ex machina e poi sta a guardare cosa succede. Perché di tutte le cose che potrebbero inventarsi Amir e Sara trovandosi una neonata senza vita in casa, l’unica che non fanno è chiamare la polizia. Eppure sarebbe forse la soluzione più semplice: ma la paura e il sospetto avvelenano il buon senso, ed entra poi in mezzo anche il desiderio di capire da soli l’evento. Cosa è successo alla bambina, e quando è successo?
La costruzione solida su cui poggia il film prefigura una specifica struttura spazio-temporale: la coppia è prigioniera della propria abitazione ed è vittima dello svolgersi dei fatti, sempre paralleli a un determinato intervento sonoro. I rumori in Melbourne acquistano un valore diegetico fondamentale, contribuendo a provocare i fatti – la porta a vetri rotta che rivela lo stato della piccola – e a interrompere i momenti di riflessione dei personaggi facendoli desistere dai propositi appena fatti. Il mondo entra continuamente nella casa di Amir e Sara, dai telefoni, dai computer e dal videocitofono, madri, sorelle, vicini, amici, suonerie ridondanti che riempiono le stanze deserte, negando alla tragedia la sua dimensione privata. Il senso profondo di una coppia è messo a dura prova quando l’unico modo per dichiararsi innocente è accusare l’altro, peraltro senza che questo attenui il senso di colpa; e allora si ripercorre la giornata, ogni gesto, ci si interroga a vicenda, si cercano le prove, si fanno congetture. Perché l’opera di Nima Javidi in realtà è un’indagine nell’indagine, uno sguardo alla ricerca della verità da parte dei protagonisti che è anche constatazione della loro fragilità. C’è la paura di essere considerati assassini, che sconfina poi nella paranoia; il bisogno dell’altro, che ispira però un’inedita diffidenza. Sarebbe allora poco corretto valutare inverosimile la trama del film, benché certamente manipolata ad hoc per sostenere un soggetto così particolare: Melbourne affronta le emozioni più elementari incastonandole in un testo laboriosamente ordito senza che questo le snaturi. D’altra parte è bene sottolineare la forte presenza qui di un’interesse per la grammatica cinematografica, una passione per le regole narrative del giallo – con striature hitchcookiane - che non prescinde da un’intensa riflessione umana. Il cinema fatto in qualche stanza, due protagonisti e molte comparse: uno spazio minimale riempito da una storia coinvolgente. A volte non basta altro.