Hush - Il terrore del silenzio
Accantonati momentaneamente fantasmi e soprannaturale, Flanagan mette in scena un home invasion (apparentemente) semplice ed essenziale
Sarebbe fin troppo facile, all'interno di una filmografia fatta per lo più di titoli tutt'altro che banali, collocare un prodotto come Hush - Il terrore del silenzio nell'esigua schiera dei film meno riusciti di un autore tra i più interessanti e incisivi del panorama horror contemporaneo. Perché, se è vero che questo piccolo thriller d'assedio, prodotto da Blumhouse, distribuito da Netflix e diretto da quel Mike Flanagan passato agli onori della cronaca per cult a basso costo come Absentia e Oculus, è quanto di più semplice e immediato si possa immaginare, è anche vero che sarebbe ingiusto liquidarlo come un semplice passo falso all'interno di una schiera di titoli a prima vista ben più significativi.
Certo, Flanagan, nel corso di una manciata d'anni, ci aveva abituato a ben altro, capace com'è sempre stato di gestire e mischiare generi in maniera originale e poco convenzionale, eppure c'è qualcosa, in questo film sfacciatamente di serie b, in grado di farci intravedere uno sguardo preciso nascosto dietro a una regia solo apparentemente invisibile e dalle trovate risapute.
Guardando meglio la lotta per la sopravvivenza di Madison Young (Kate Siegel), scrittrice sordomuta alle prese con uno psicopatico più che determinato a irrompere nella sua casa sperduta nel bosco, pare infatti che il futuro regista di Hill House, messo da parte un cinema impregnato di fantasmi, lutti e sensi di colpa, abbia deciso di rinunciare al soprannaturale e a qualsivoglia approfondimento psicologico per cedere il passo al più classico degli home invasion (da Cane di paglia fino a The Strangers, i riferimenti si sprecano), arricchendolo, però, di un semplice e salvifico guizzo inventivo. È la mancanza (fisica), infatti, il perno attorno a cui ruota l'esile quanto vincente trovata di Hush, una privazione sensoriale che si rispecchia in quella della sua protagonista (incapace di chiedere aiuto ma, soprattutto, di sentire il pericolo), facendo dell'handicap il motore di un'azione in cui è il suono (e la sua negazione) a diventare l'elemento fondamentale per costruire la tensione e la suspense di un film fatto di silenzi, pochissimi dialoghi e improvvisi soprassalti emotivi.
E se è vero che questa intuizione sarà ben presto ripresa da altri prodotti più elaborati e compiuti (uno su tutti, A Quiet Place), è innegabile l'abilità che sta dietro a questo film dal ritmo implacabile e ben calibrato, un incubo claustrofobico che Flanagan colora di lievi ma evidenti suggestioni kinghiane.
Sì, perché forse è proprio alla luce dei film successivi, che Hush acquista il suo principale valore, quasi fosse non più solamente un semplice (e dignitoso) esercizio di stile, ma la prova generale di incubi e orrori futuri. Come non vedere, del resto, nella (almeno apparente) vulnerabilità della protagonista (una scrittrice in piena crisi creativa, quindi di per sé già kinghiana) o nei suoi brevi, stravolti monologhi interiori, un'avvisaglia e un vago abbozzo proprio di quel Gerald's Game il cui adattamento, di lì a qualche anno, aumenterà la schiera di successi del regista, regalando alla sua filmografia l'ennesimo personaggio femminile forte e determinato?
Scombinando ancora una volta le aspettative, Hush si dimostra così non solo l'esempio lampante dell'abilità di Flanagan di muoversi con disinvoltura tanto all'interno dell'horror più evocativo quanto negli spazi angusti del thriller più brutale, ma anche un titolo entrato a pieno diritto nel percorso di un autore capace di parlare agli spettatori anche attraverso le sue opere minori, persino nell'assordante silenzio di quelle che non hanno bisogno di parole.