Anywhere Anytime
L'opera prima di Milad Tangshir aggiorna 'Ladri di biciclette' alle logiche del capitalismo contemporaneo dando voce ai nuovi invisibili.
“Un rider nero è un rider nero”, spiega a Issa (Ibrahima Sambou), immigrato clandestino rimasto senza lavoro, il connazionale Mario per convincerlo a effettuare le consegne a nome suo. Come dire, quando si è ultimi tra gli ultimi, non si ha davvero un'identità. Una constatazione amara (nonché la premessa per un epilogo dai risvolti quasi thriller) che porta con sé il senso stesso di un film come Anywhere Anytime, passato per la SIC di Venezia e ora in sala. Perché Issa, perso da sei anni in una Torino indifferente che lo mastica e sputa in continuazione, è a tutti gli effetti un invisibile, un fantasma. Un individuo senza più alcuna identità che il regista esordiente di origine iraniana Milad Tangshir decide di far uscire dall'ombra, donandogli per un momento quella voce e quella visibilità che non ha mai avuto.
Per farlo – assieme a suggestioni che vengono dritte dallo Scorsese di Taxi Driver (citato esplicitamente) – usa tutte le modalità tipiche del cinema così detto “del reale”, rendendo, però, questa volta esplicito il suo legame (pretestuoso o meno che sia) col neorealismo. Nel disperato e febbrile vagabondare di Issa per le strade della città in cerca della bicicletta rubatagli il primo giorno di lavoro, non c'è infatti solo un semplice omaggio a Ladri di biciclette, ma il tentativo genuino di adattare quell'approccio all'oggi, aggiornandolo a un capitalismo onnisciente dove la libertà e l'assenza di confini non sono altro che vuoti slogan (quell'anywhere anytime che campeggia sullo zaino da rider, quasi fosse una beffarda constatazione dello stato delle cose).
È in questo modo che la Torino di Tangshir, vera co-protagonista del film, si fa emblema di un intero mondo. Un mondo dalle cui logiche e regole è impossibile scappare e dentro cui Issa arranca per non rimanere sopraffatto, per non cedere a una solitudine che minaccia di travolgerlo e farlo sparire. Quasi come un controcanto dell'Io capitano di Matteo Garrone, un sequel apocrifo dove quell'identità acquisita con tanta fatica finisce con lo sgretolarsi al contatto col reale, Anywhere Anytime traccia così il quadro, esemplare e insieme circoscritto, di un presente desolante. Una realtà fatta di sopraffazione, egoismi e precarietà in cui, però, pare intravedersi ancora una luce. Come se – mentre la macchina da presa isola il suo protagonista, guardandolo sfrecciare per la città fino a pedinarlo nella sua disperata ricerca di un posto nel mondo, fuori dalle maglie delle vie cittadine – questo cinema possa ancora cambiare le cose, possa ancora far tornare il suo oggetto, per un momento, individuo.