Mishima – Una vita in quattro capitoli
Sofferto esploratore del limbo tra vita e bellezza, Mishima trova posto nel pantheon degli antieroi di Paul Schrader
Yukio Mishima è una figura difficile da ridurre alle consuete etichette di scrittore, autore teatrale o intellettuale. Mishima era un artista totale, posseduto da passioni divoranti e contradditorie, che ha vissuto la propria inquietudine fino alle sue folli, allucinate conseguenze. Paul Schrader ne rimase indubbiamente affascinato, tanto da scommettere su un’opera unica e irripetibile come Mishima – Una vita in quattro capitoli (1985). Prodotta dai colleghi George Lucas e Francis Ford Coppola, l’opera fu una prevedibile sconfitta al botteghino, costosa e commercialmente non appetibile, anche a causa della scelta di attori stranieri e dialoghi parzialmente in lingua giapponese. Sin da allora, la scelta di Schrader sembrò una forma di martirio cinematografico; un gesto estetico/estatico che sembra mimare il suicidio rituale dello stesso Mishima, compiuto dopo il tentato colpo di stato di cui è stato il regista, l’interprete e il buffone.
A complicare ulteriormente le cose, l’opera fu gravata da una serie di vincoli imposti dalla moglie dello scrittore, detentrice dei diritti della sua opera: niente riferimenti all’omosessualità, alla famiglia e agli aspetti più destabilizzanti della sua opera, oltre che un veto alla rappresentazione del suo suicidio.
Schrader accetta la sfida, e sceglie di rappresentare Mishima ponendo al centro del discorso i limiti, i vincoli e i fuori campo della vita dello scrittore. All’immediatezza del biopic, il regista di Grand Rapids preferisce l’ipermediazione, l’ingombranza dello stile: con la sua struttura a capitoli, il montaggio continuo tra biografia e teatro, la fotografia eterogenea e la stentorea voce over del suo protagonista ad accompagnare la visione, Mishima sembra ricalcare l’ambiguo rapporto dello scrittore giapponese con l’arte e la vita. Come ci ricorda uno dei personaggi,
"Only art makes human beauty endure. You must devise an artist’s scheme to preserve it"
Mishima non è un percorso lineare, ma un labirinto di parole, rappresentazioni ed emozioni con un’unica possibile via di fuga: la morte dell’autore, la morte dei suoi personaggi incontenibili. Per Pasolini, la morte era necessaria per suggellare la vita di un senso definitivo e irrevocabile. Mishima sarebbe stato d’accordo, ma avrebbe posto l’accento sulla bellezza del gesto.
"Men wear masks to make themselves beautiful. But unlike a woman’s, a man’s determination to become beautiful is always a desire for death"
Il senso di disorientamento che scaturisce da questo labirinto è reso dalle scenografie stilizzate di Eiko Ishioka, che incorniciano le opere teatrali scelte da Schrader per raccontare la psiche del suo autore. Così, Il Padiglione d’Oro diventa occasione per mostrare il rapporto tra bellezza e sofferenza; La casa di Kyoko ci parla di masochismo e passività, mentre Cavalli Selvaggi incarna lo spirito guerriero e la passione quasi erotica per il mito imperiale nipponico.
Sul fronte registico, Schrader distingue il passato dal presente attraverso un sapiente uso della fotografia che separa la biografia dalla finzione, alternando il bianco e nero del passato ai colori realistici del presente, fino al cromatismo acceso del teatro e dell’astrazione. La voce over di Mishima ci accompagna tra le immagini e, citando passaggi da Confessioni di una maschera, completa il ritratto dell’uomo e dell’artista.
Nelle mani di Schrader, Mishima è una camera di risonanza fatta di narcisismo, onore, erotismo, masochismo e tanatofilia. Molti di questi aspetti lo accomunano con le altre anime perdute del suo cinema, come Julian Kay, Travis Bickle e Jake La Motta. Mishima sembra nato per unirsi a questo pantheon di martiri, teorici ed interpreti della dannazione di essere umani. L’autore di Confessioni di una maschera si incastra perfettamente nella poetica che Schrader aveva già delineato negli anni precedenti. Mishima era ossessionato dalla purezza, dall’assoluto estetico: una trascendenza del bello che ha intrigato il regista di Grand Rapids che, come è noto, al trascendente e ai suoi interpreti nel cinema, come Dreyer e Bresson, ha dedicato un intero libro.
"Our best weapon is purity"
Tra tutti questi personaggi, quello più affine a Mishima è probabilmente il protagonista di American Gigolo. Mishima coltiva il bello e la perfezione artificiale, cura perfettamente il suo corpo e dedica al rito della vestizione un’attenzione maniacale: è un palcoscenico dell’identità maschile nella modernità, tematica che Schrader ha indagato con particolare attenzione già dai tempi della New Hollywood degli anni Settanta. Quando lo vediamo abbottonarsi la divisa militare della Società degli Scudi, Mishima diventa a tutti gli effetti un Japanese Gigolo definito dallo sguardo altrui e dall’imperativo della seduzione:
"Guys like us are just like beautiful girls. We get sick of always being stared at"
La natura biografica di questo lavoro rende l’operazione del regista ancora più perturbante. Non esiste un equivalente occidentale che possa aiutarci a colmare senza fatica la distanza culturale con l’autore giapponese: dovremmo pensare a un ibrido tra Gabriele D’Annunzio e Norman Mailer, un vate inquieto che scuoteva l’animo del Giappone postbellico che, come i personaggi schraderiani, era destinato alla dissoluzione, o alla sublimazione.
"Art is a shadow... that stage blood is not enough"
L’arte è soltanto un’ombra; il sangue finto non è mai abbastanza. Eppure, l’arte ha il potere di cambiare un uomo in un lampo. Lo scrittore giapponese si è innamorato del San Sebastiano di Guido Reni, mentre il nostro regista, cresciuto in un ambiente puritano e religioso, si è lasciato sedurre dalla settima arte sulla soglia dell’adolescenza. Attraverso Mishima, Schrader mette in scena la sua stessa fede nel cinema: Mishima diventa l’unica Giovanna D’arco possibile nel cinema degli anni Ottanta, dove ormai l’innocenza dello sguardo di Dreyer e di un’intera epoca si sono fatte insostenibili. Forse è per questo motivo che il regista continua a considerare Mishima come il suo miglior film: se il cinema è un’ombra, è difficile immaginare un’ombra più viva e sincera di questa.