Molly's Game
L'esordio di Aaron Sorkin alla regia è un biopic che diventa il manifesto dei valori del suo autore.
La sostanza, e forse anche la parte migliore, di Molly’s Game sta tutta nella sua sequenza iniziale, in cui la voce over di Jessica Chastain si piega alla perfezione al ritmo inesorabile della scrittura di Aaron Sorkin, il quale a sua volta piega la propria regia a quello stesso ritmo: il risultato è un’apertura che sommerge lo spettatore con un torrente di parole che sono anche una dichiarazione d’intenti molto chiara. In Molly’s Game ciò che conta è quel che viene detto e come viene detto, tutto il resto sta al servizio del dialogo, perfettamente orchestrato per esaltarlo.
Forse è questo il motivo per cui il film, nonostante le oggettive qualità (su tutte le interpretazioni di Chastain e Idris Elba), non stupisce: Molly’s Game è Sorkin che fa Sorkin, mantenendo anche in qualità di regista il proprio innamoramento per il dialogo incalzante, ricco e senza sbavature veicolato da personaggi ultra-competenti e dall’intelligenza brillante.
Alla luce di questo, è interessante notare come Sorkin anche come regista abbia deciso di applicare questa visione del cinema a un biopic, come era già accaduto con The Social Network, Moneyball, La gurra di Charlie Wilson e Steve Jobs. Interessante nella misura in cui quel che interessa a Sorkin del biopic non è la verosimiglianza o addirittura la verità (ammesso che sia possibile riprodurre la verità attraverso un biopic) ma la potenzialità che una biografia può avere nel permettergli di esplorare i temi a lui più cari, piegandola alla propria visione del mondo: «[...] the fact that Molly is a woman is not irrelevant to the story, by any means, but I will say that it’s irrelevant to how I wrote it. I wasn’t thinking in a different way» (Aaron Sorkin a Kyle Buchanan in un’intervista a Vulture del 26 Dicecembre 2017).
Molly’s Game non fa eccezione da questo punto di vista, pur avendo una protagonista femminile che in teoria consentirebbe di esplorare una prospettiva differente sulla realtà: Molly Bloom è prima di ogni altra cosa un personaggio sorkiniano, che ci trasporta come gli altri in una realtà alternativa in cui la competenza e l’onestà sono i valori fondamentali, e il sistema premia il rispetto per la legge e la coerenza verso sé stessi anche quando la posta in gioco non è il governo di un paese ma una semplice partita di carte.
Nella storia vera di Molly Bloom, ex sciatrice professionista che finisce a condurre partite di poker clandestine ed esclusive per una élite di giocatori tutti maschi soltanto grazie alle proprie capacità, Sorkin vede un racconto profondamente americano nel senso migliore del termine: l’eroe che si fa strada nel mondo grazie al talento e alla determinazione, e che anche di fronte alle difficoltà e alle facili soluzioni non rinnega mai sé stesso, non cede ai ricatti e alla fine pur nel fallimento trionfa, veicolando un’idea di successo che pur non essendo materiale né convenzionale stabilisce la vittoria di un ideale, romantico nella misura in cui si oppone a qualsiasi tentativo di sporcarsi con le logiche dell’opportunismo.
Anche per questo Molly’s Game è un film tradizionale, tradizionalista, quasi conservatore, in cui mancano totalmente sia guizzi registici che contenutistici; avendo come primo obiettivo la risoluzione ideale della propria storia per veicolare ben precisi messaggi, già contenuti in maniera esaustiva nella scrittura, Sorkin non sente il bisogno di far nient’altro che illustrare questa scrittura per immagini, senza concedersi o concedere allo spettatore nulla di più oltre ad una ben gestita coreografia visuale dei dialoghi e dei monologhi.
Un team di ben 3 montatori (inusualmente nominati tutti nei credits, a riprova dell’enorme valore che Sorkin attribuisce alla capacità di creare un ritmo visivo all’altezza del ritmo delle proprie parole), la fotografia di Charlotte Bruus Christensen che gioca con luci ed ombre accarezzando il set design di David e Sandy Wasco, che ricreano Los Angeles e New York con spazi pensati a misura del ritmo del voice over di Molly, ma anche i costumi di Susan Lyall che aiutano la protagonista a diventare “la versione Cinemax di sé stessa”, sono sicuramente parte integrante della riuscita finale del film. Se la capacità di un regista si misura anche dalla scelta della crew perfetta per raggiungere l’effetto che si è prefissato, Sorkin si dimostra in questo all’altezza del compito.
Se però dobbiamo prendere in considerazione la marca autoriale anche come espressione di un timbro estetico originale, Molly’s Game sotto questo punto di vista non si allontana mai abbastanza dalla propria simbiosi con lo script, non riuscendo ad emanciparsene e compiere il salto necessario a definire un’opera cinematografica eccellente.
Pur appesantito da una prevedibilità realizzativa e da una mancanza di autonomia estetica che ne minano la riuscita finale, Molly’s Game è però un perfetto manifesto sorkiniano, solidamente professionale, che sembra uscito dalla mano di un abile mestierante della regia piuttosto che da un esordiente.