Muse
Muse, streghe e trasposizioni cinematografiche, il ritorno di Balagueró alla regia è un film affascinante ma poco calibrato
Il cuore orrorifico del cinema spagnolo, che pulsa nel muscolo duro del duo registico formato da Jaume Balagueró e Paco Plaza, torna a battere due colpi, quasi in sincrono, come se l’uno avesse bisogno dell’altro per risuonare nella sua stessa cassa toracica: dopo Veronica di Plaza, arrivano le malefiche Muse di Balagueró. Ammaliatrici, seducenti, taglienti, affamate, fonte d’ispirazione e dannazione della poesia e del poeta, le muse tratteggiate da Balagueró sono spiriti immortali ed infernali, dark lady capaci di sedurre e d’ispirare i magnifici versi di Dante, Milton, Baudelaire, Shakespeare e Keats. Provando a trasporre l’affascinante romanzo di José Carlos Somoza, La dama numero 13, il regista spagnolo racconta la storia di un professore di lettere che viene coinvolto in un rito arcaico dove le Muse verranno a recriminare il loro Imago, un amuleto che detiene in sé l’anima di una delle sette (o tredici? o nove?) incantatrici, ripudiata dalle altre sorelle. Il senso di colpa scaturito dal suicidio di una sua ex allieva, un sogno ricorrente avente a che fare con il rito del cerchio bianco, una prostituta ceca soggiogata dal suo aguzzino, e le Muse, sono questi gli elementi di una narrazione che inizia come una rincorsa rivelatrice di un enigma celato nei versi, e nel processo creativo, della poesia maledetta.
Sciogliendosi dai legami che l’hanno portato ad essere, e rappresentare, il regista di REC, e rispetto alla sua controparte (Paco Plaza) Balagueró è da sempre un regista che legge l’horror ancor prima di trasporlo e realizzarlo cinematograficamente. Se entrambi hanno mosso i primi passi nel genere trasponendo due romanzi di Ramsey Campbell (Pact of Father e The Nameless), Plaza è principalmente il regista del found footage, processo stilistico che fa timidamente capolino anche nel suo ultimo lavoro Veronica, mentre Balagueró, purché adottando lo stile sopracitato nei REC, è rimasto il più fedele alla possibilità, e complessità, del romanzo di tradursi in opera cinematografica. Procedimento, questo, che l’ha indotto (quasi) sempre a confrontarsi con la complessità di una narrazione prosastica, orchestrata affinché le informazioni, e le linee narrative, giungano ad essere delineate attraverso il lento e complesso procedimento della lettura; e purtroppo le sue opere derivative non sempre riescono ad uniformarsi a una rappresentazione cinematografica in grado di saperle contenere e ridurre. I suoi migliori film risultano, d’altronde, titoli che nascono come procedimenti avulsi dal romanzo, come l’inquietante e riuscito Bed Time, tratto da una sceneggiatura di Alberto Marini (ed espansa solo successivamente nella forma di romanzo dallo stesso sceneggiatore), o come Darkness e Fragile, tratti da sceneggiature dello stesso Balagueró.
Muse si inserisce in questo novero di opere difficili da calibrare e da trasporre, romanzi che si nutrono dei loro stessi tempi di lettura, soprattutto in un’opera come questa di Somoza, dove la tensione, e la bellezza, è direttamente proporzionale alla raffinatezza intellettuale e letteraria di una prosa che si unisce indissolubilmente alla poesia. Nonostante il film possieda delle scene ben congegnate, costruite su dialoghi funzionali al racconto, la necessità di raccontare la storia (molto affascinante quanto complessa) che lega le muse al loro diabolico scopo non viene rappresentata attraverso il racconto per immagini, ma viene enunciata come racconto didascalico nel dialogo di una semplice scena di campo e controcampo. Ovviamente la prosa del romanzo meglio si adatta a distribuire le informazioni di un racconto così stratificato, godendo della parcellizzazione, e calibratura, dell’enunciazione del tessuto contestuale e narrativo rispetto al film che necessita di tempi diversi e di un linguaggio più visivo e meno dialogico. D’altronde è la stessa cifra stilistica di Balagueró ad affascinare maggiormente, l’ambientazione, il continuo uso di chiaroscuri, l’intelaiatura che preferisce l’accumulo della tensione allo spavento, o al gore, sono caratteristiche di un cineasta che tornano, e continuano, ad ammaliare lo spettatore. Purtroppo però il denso materiale di partenza, di per sé complesso da ridurre, viene orchestrato in maniera lacunosa lasciando lo spettatore spesso smarrito nella storia, alla costante ricerca di una Musa, o sirena, o strega, a cui appellarsi per tracciare nuovamente il cammino della verosimiglianza e della narrazione. Balagueró semina molliche di pane, scampoli visivi di intensa riuscita stilistica, per poi dover accelerare nella spiegazione lanciando tutta la pagnotta allo spettatore – già morsa, quindi parziale nella sua interezza - che rimane ammaliato più dalla confusione narrativa che dalla stratificazione letteraria e poetica del racconto; non riuscendo più a carpire il bandolo della matassa di un film che l’ha esso stesso smarrito nei pesanti e scivolosi processi di scrittura e contenimento del vasto materiale di partenza. Resta comunque interessante, e nobile, la volontà di cercare di confezionare un prodotto di genere, orientato quindi verso il grande e vasto pubblico, che si faccia portatore di un valore culturalmente e stilisticamente raffinato.
Balagueró pecca di conformismo di genere, un romanzo come quello di Somoza meritava forse una trasposizione più libera, più poetica, certamente più rischiosa, meno commerciale, meno definitiva e classificabile, un film che non pretendesse di essere didascalicamente esplicativo, che non volesse contenere tutte le derive narrative del romanzo, ma che rimanesse soffuso, aperto a più interpretazioni, capace quindi di far suo il vincolo poetico dell’emozione e del tormento dell’intensità del processo creativo poietico.