REC 4 - Apocalypse
Il capitolo conclusivo della saga horror spagnola tra prevedibilità e occasioni mancate
C’era una volta un film che per la sua schiettezza, la perfetta semplicità di un’idea e una buona dose di furbizia era riuscito a conquistare il pubblico di mezzo mondo facendo schizzare il cinema iberico nell’olimpo degli horror adrenalinici. Quella di REC era stata una parabola sorprendente e folgorante che si era nutrita del suo mito, che aveva perseverato col successo del suo seguito e aveva illuso pubblico, critica e autori che quell’incubo di voyeurismo, indemoniati rabbiosi e macchine da presa sobbalzanti sarebbe durato per sempre.
Il campanello d’allarme per convincersi che, forse, un dittico sarebbe bastato, però, già era suonato dopo l’incostante, azzardato e ambizioso REC 3 – La genesi, che, abbandonata (quasi del tutto) l’ormai abusata estetica del found footage, cercava nuova linfa vitale in una commedia splatter dal retrogusto surreale dove Dal tramonto all’alba incontrava L’alba dei morti dementi, con tratti comici stranianti, eccessivi e, in definitiva, fuori luogo, in un’operazione grottesca e decisamente non riuscita.
Nulla ha dissuaso però la coppia di registi spagnoli a proseguire la sua folle corsa e, dopo la penultima fatica diretta in solitaria da Paco Plaza, è toccato al suo collega Jaume Balagueró chiudere le danze firmando il capitolo conclusivo della saga dall’altisonante titolo di REC 4: Apocalipsis.
Accantonata quasi completamente l’esperienza ludica e scanzonata del terzo film, alla disperata ricerca delle cupe suggestioni delle origini, un viaggio a ritroso a cui vuole tornare Balagueró, richiamando le atmosfere claustrofobiche e angoscianti, in una trappola mortale e labirintica in cui (ri)perdersi e da cui è impossibile fuggire. Non sorprende allora che dopo un breve incipit – macchina a mano, nell’ormai mitico palazzo a Rambla de Catalunya 34 – la location si sposti all’interno di una petroliera convertita in laboratorio scientifico, estremizzando dinamiche spaziali e affettive che hanno fatto il successo della saga.
É qui che si ritroveranno i disorientati protagonisti, unici sopravvissuti alle mattanze dei film precedenti; qui che diverranno cavie involontarie di misteriosi scienziati in cerca di una cura e poi terrorizzate prede in fuga da una piaga che ha sempre più forti i caratteri della minaccia globale.
Una minaccia solo suggerita, perché sarà ben presto chiaro che l’apocalisse del titolo altro non è che una millantata esagerazione che lascia presto il passo a un pericolo strisciante di fantascientifica memoria, dove La Cosa si confonde con Alien, l’intruso famelico si moltiplica senza sosta tra spazi angusti e freddi e l’inadeguatezza a questi grandi modelli – vuoi per esiguità di mezzi, vuoi per carenza di idee – si fa sempre più evidente in un climax che è un crescendo di prevedibilità.
Spogliato il film dallo stile del mockumentary, da quella trovata che da The Blair Witch Project in poi è stata, almeno per qualche anno, indice di freschezza e originalità, altro non resta che una regia senza slanci, senza grandi idee né spunti di rilievo dove i personaggi – compresa la rediviva Angela Vidal (Manuela Velasco), in un’operazione nostalgica volta a richiamare quei fan persi con il terzo capitolo – fuggono in una corsa affannosa e senza senso, persi come i fili di una trama che fatica a coinvolgere.
Che gli spunti per chiudere degnamente la saga non mancassero è innegabile, a partire da quei risvolti paranormali che genialmente si fondevano con l’idea del contagio, colorando la vicenda di un virus misterioso coi toni sovrannaturali della possessione demoniaca, tracciando una mitologia affascinante e tutt’altro che poco originale. Tutto questo in Apocalipsis viene drasticamente ridimensionato, lasciando da parte chiesa ed esorcismi e trattando la minaccia come un semplice parassita, alla maniera dei più classici drammi da contagio con tanto di improbabili scimmie infette fuggite dal laboratorio e pronte a seminare terrore.
Paradossalmente, è proprio la verosimiglianza la prima vittima di REC 4. In un ritorno che non porta con sé nulla di ciò che ne ha decretato il successo, restano solamente le immagini delle videocamere di sorveglianza, assieme alla “testimonianza” dei primi film (rimontata su un computer per carpirne i segreti), a farsi vuote vestigia, ciechi omaggi a un mondo ossessionato dallo sguardo e insieme distrutto da esso. Forse a questo allude l’apocalisse del titolo, congedo da un breve, folgorante momento di cinema d’intrattenimento che non c’è più, addio forzato ma inevitabile che si esplica in quelle videocamere distrutte da Angela nella sua fuga disperata, finalmente e per sempre libera e lontano da uno sguardo sempre esaltato, onnicomprensivo, invadente di cui, francamente, non se ne poteva più.