My Little Sister
Il nuovo horror dei Del Piccolo è apparentemente più semplice e forse per questo più efficace
Togliamoci il pensiero e cominciamo dalla trama: durante una vacanza, cinque giovani amici si imbattono in una casa isolata e apparentemente disabitata. Al suo interno si nasconde un maniaco con la passione per l’epidermide altrui. Infatti, dopo avere scuoiato le proprie vittime, ne indossa la pelle a mo’ di maschera. Nel tempo libero, invece, si prende cura del padre o quel che ne resta: un corpo immobile su una sedia.
Chiunque abbia un minimo di cultura cinefila o passione per l’horror, questa storia l’ha già sentita. Motivo per cui non sceglierà di vedere My Little Sister per l’originalità. Il modo corretto per approcciare al film è considerarlo un puro omaggio allo slasher, un remake apocrifo di Non aprite quella porta misto a qualche altra influenza. La storia infatti non si svolge nelle campagne del Sud ma nei boschi del Nord, per l’esattezza in quelli del Friuli Venezia Giulia. I ragazzi in tenda potrebbero essere accostati più facilmente ai protagonisti di The Blair Witch Project e l’arrivo del boscaiolo che li mette in guardia ricordare quello dello scrittore di Il bosco 1. Con ogni probabilità, però, Maurizio e Roberto Del Piccolo non avevano nessuna intenzione di omaggiare il mockumentary di Myrick e Sanchez né il trash di Marfori, hanno piuttosto giocato con gli stereotipi del genere, modelli universali in grado di richiamare nel pubblico suggestioni personali. Il campeggio, ad esempio, era un elemento già presente nella loro opera prima, The Hounds. Tornando a My Little Sister, nei titoli di testa ci viene mostrato un articolo di cronaca nera inframmezzato alle foto di una famiglia tradizionale. Questo parallelo emergerà lentamente nella storia e sarà esplicitato solo nel finale ma ci permette di comprendere fin da subito che il tema centrale è il medesimo di tanto new horror, ovvero la famiglia disfunzionale. Anche se, a onor del vero, il filmino che svelerà il sadico passato di genitori e figli sembra trovare ispirazione in un titolo ben più recente, Sinister. Al di là delle connessioni intertestuali, ciò che emerge più brutalmente dalla testimonianza filmica all’interno della diegesi è il divario tra i generi, gli uomini (padre e figlio) sono complici mentre le donne (madre e sorellina) vivono isolate e sottomesse. In un nucleo sociale in cui i rapporti sono scanditi dalla violenza, sia essa fisica o psicologica, non esistono vittime e carnefici. L’educazione basata sulla mancanza di empatia spinge anche l’individuo più debole, appena gliene si presenta l’occasione, a rispondere con altrettanto sadismo alle offese subite. Vien da sé che la Little Sister del titolo non può essere un’innocua figura. D’altronde già nel precedente film dei cugini Del Piccolo (Evil Souls) uno psicopatico si rivolgeva a una prostituta chiamandola amichevolmente così: “Hey there, little sister”.
La donna che in un primo momento poteva apparire soggiogata, avrebbe poi dimostrato di essere non solo sua effettiva consanguinea ma altrettanto pericolosa. Nel loro ultimo lavoro, i registi friulani raddoppiano questa figura: prima ci presentano un maniaco munito di ascia e conosciuto come Little Sister, in antitesi alla sua presenza fisica; poi ci svelano chi è realmente la sorellina del mostro, una bambina dall’umorismo a dir poco macabro. A differenza del Grande Fratello che monitora costantemente chiunque ponendosi in cima alla gerarchia sociale, la Piccola Sorella occupa lo strato più basso e ha uno sguardo totalmente soggettivo sulla realtà circostante. La può filmare dalle angolature più nascoste, ma una volta scoperta per lei sopraggiunge inevitabilmente la fine.
Se i precedenti lungometraggi di Maurizio e Roberto Del Piccolo possedevano tesi facilmente rintracciabili, essendo incentrati il primo su una tematica cronachistica come il traffico d’organi e il secondo su un argomento complesso come la genesi del male, My Little Sister sceglie la strada dell’intrattenimento semplice, mantenendo sullo sfondo ogni possibile lettura e utilizzando le citazioni, compresa quella di Biancaneve e i sette nani, come puro divertissement. Il film è dunque il prodotto home video ideale per un pubblico giovane con un approccio cinematografico fresco e poco pretenzioso. È ben confezionato e i suoi sobbalzi li regala. Non bisogna chiedergli di più perché è il mercato di destinazione a non volere altro. Forse l’unico rammarico legittimo è verso il look dell’assassino, poco incisivo se confrontato con quello dei più celebri villain dello slasher. Il suo outfit comprende scarpe da trekking, jeans e bomber marrone, mentre sotto la maschera si nasconde un volto da hipster con barba, capelli e sopracciglia ben curati. Sono lontani i tempi delle facce deturpate, i maglioni a fasce colorate, le tute da meccanico e i grembiuli da macelleria.