Cafarnao - Caos e miracoli
Opera dolorosa e apparentemente "facile" nella sua drammaticità neorealista, il film di Nadine Labaki mostra un conflitto tra il mondo infantile e quello adulto che supera le barriere geografiche e diviene problema universale
Contro ogni morale comune, in Cafarnao - Caos e miracoli tutto sembra funzionare al contrario: i vivi maledicono la vita, i genitori maledicono i figli, i figli maledicono i genitori. Zain, bambino libanese figlio di una disgraziata coppia di derelitti, non va a scuola ma lavora fin dalla più tenera età. Anche i suoi fratelli procedono sulla stessa china, contribuendo all’economia famigliare nei modi più disparati - legali e no - mentre le femmine una volta giunte alla pubertà vengono sposate al miglior offerente. I genitori picchiano e insultano i propri figli senza però smettere di metterne al mondo altri, così non ci si stupisce che fin dall’inizio del film si scopra che il protagonista, già in carcere all’età di dodici anni per tentato omicidio, voglia far causa alla madre e al padre per averlo messo al mondo.
«Ma ci sono i bambini: cosa dovrò fare con loro?» chiede Ivan Karamazov al fratello Alioscia ne I fratelli Karamazov, mentre cerca di spiegare il suo rifiuto di Dio. Potrebbe anche accettare un paradiso costruito sulla sofferenza degli adulti, i quali potranno infine trovare sollievo nel regno dei cieli; ma un aldilà edificato sulle lacrime di un singolo bambino, no. Nell’immaginario culturale non ci sono vittime della crudeltà del mondo più ideali, più perfette e dolenti dei bambini. Pertanto non stupisce che l’infanzia sia di frequente utilizzata come mezzo per parlare al cuore di chi rimane sordo alle sofferenze dei grandi, e così in fondo fa anche Nadine Labaki nel suo film, Premio della Giuria a Cannes 2018. Un’opera che rischia di risultare ovvia, scontata agli occhi oramai distaccati e diffidenti di chi osserva velocemente online mille notizie e immagini di guerre, violenze e ingiustizie che scorrono infinite e uguali sulle bacheche dei social network.
Labaki punta tutto sugli occhi dei suoi protagonisti, tre innocenti che perfettamente incarnano l’idea comune di vittima:, Zain (uno straordinario Zain Al Rafeea, un autentico ex rifugiato siriano di 12 anni ancora analfabeta al tempo della produzione del film), Rahil, una madre single etiope immigrata clandestinamente in Libano, e il suo figlioletto Yonas, che ancora non parla e a malapena sa tenersi in piedi, ma balla al ritmo di musica e guarda tutto e tutti con occhi sgranati. Facile espediente per smuovere le coscienze o estremo tentativo per denunciare qualcosa che tutti sanno senza curarsene?
Se c’è una qualità intrinseca in Cafarnao è la capacità di sembrare una cosa, e poi subito dopo un’altra. I temi principali raccontati nella storia sono due, ma alla fine potrebbero essere riuniti in una sola grande accusa rivolta al mondo adulto. Innanzitutto quello individuale dei genitori che procreano bambini secondo un mero atto egoistico, pura acquiescenza alle leggi primordiali della natura per cui l’importante è che la vita continui sempre, che il seme e il sangue vengano perpetuati di padre in figlio, senza alcuno scrupolo. Esistere nonostante tutto, anche nell’incuria, nello sfruttamento e nella sofferenza: Zain contesta questo principio di natura, e rivendica il dovere di una procreazione consapevole, ove i genitori sappiano riconoscere e mettere realmente al primo posto i bisogni fisici e spirituali dei propri figli. È importante notare che in Cafarnao i genitori di Zain sono ex vittime divenute carnefici, creature prodotte dalla povertà che replicano colpevolmente i meccanismi coercitivi che li hanno spezzati fin da piccoli. Ma c’è anche il mondo adulto collettivo, sintetizzato da tutti gli adulti che il ragazzino incontra nel film scansandoli diffidente, oramai conscio dei secondi fini nascosti dietro le loro parole gentili. Un universo riassunto soprattutto nel personaggio invisibile ma presente dello Stato. Nadine Labaki affronta il tema dell’immigrazione clandestina senza didascalie morali né accuse. Semplicemente mostra individui che devono nascondere la propria esistenza per non essere cacciati via, bambini che non esistono per lo stato in quanto mai registrati all'anagrafe, o per l’indifferenza dei genitori o per il timore, come nel caso di Rahil, di perderne la custodia. Senza i documenti non si è persone per lo Stato, eppure Zain e altri come lui devono portare il peso di una vita non richiesta: esistere suo malgrado pur non esistendo per il mondo.
È proprio la potenza degli interrogativi senza risposte, delle immagini devastanti, degli occhi incredibilmente espressivi di Zain, a essere il punto forte e allo stesso tempo quello debole del film. Qual è difatti il rischio più grande che corre un’opera così universale ma anche così specifica? Quello di far seguire alla facile commozione l’indifferenza latente dello spettatore. Difatti l’aspetto relativo al degrado sociale in Beirut, che certamente pretende di essere raccontato, denunciato e discusso, può far credere allo spettatore che in fondo tutto quell’orrore, quella sporcizia e quella povertà non lo riguardi. Che sia disdicevole, indegno e malsano, certo; ma per fortuna noi che guardiamo il film viviamo in una società migliore. E sulla carta è vero, ma è anche vero che l’immigrazione clandestina è oramai tema che scuote il mondo intero, e soprattutto che questa genitorialità problematica, sofferente e impreparata - in un popolazione mondiale di sette miliardi di individui - è argomento che va affrontato coscientemente, senza stereotipi né falsi ideali: perché davvero oltre ogni banalità ogni bambino merita genitori che sappiano crescerlo, perché ci vuole molto più dell’istinto materno/paterno per essere parenti, perché è meglio non mettere al mondo bambini pensando che male che vada la vita è sempre e comunque un dono. Cafarnao è una grande opera se decidiamo che ciò che racconta ci riguarda tutti. Altrimenti è solo un altro bel film strappalacrime. Allo spettatore la scelta.