Nebraska

Si autorizza il pagamento di un milione di dollari a Mr. Woodrow T.Grant di Billings, Montana”.

Guardando Nebraska si ha la felice impressione che Alexander Payne abbia trovato finalmente la dimensione estetica più congeniale al suo cinema: con un bianco e nero mai stilizzato, in quel formato cinemascope che ricorda l’America malinconica e struggente del Bogdanovich de L’ultimo spettacolo, Payne inscrive il suo trasparente road-movie all’interno di un cinema di dissolvenze, di antiche traiettorie, di strade familiari e rapporti umani. L’America che racconta è quella provinciale, conservatrice, che vive (o meglio sopravvive) in uno di quei limbi senza tempo che hanno fatto la storia del cinema americano. In quelle cittadelle ferme, sonnolente, lontane dalla nevrosi delle metropoli, ritroviamo vecchie bettole e karaoke, pettegolezzi e lunghi silenzi di una vita tutta interiorizzata, mentre si sorseggia una birra o si subisce la televisione, centro nevralgico del passatempo da osservare in devoto, inossidabile silenzio. L’impressione è che in un mondo sempre più globalizzato il tempo non sia riuscito a scalfire alcune antiche abitudini, che rimangono come residuo, eccedenza, inconsapevole atto resistenziale.

Questa dolcissima ballata folk aderisce appassionatamente all’espressione sfuggente e distratta del vecchio Woody, interpretato da un magnifico Bruce Dern. Woody è l’autentico polo geografico e sentimentale dell’opera: personaggio innocuo, spaesato, assente, persuaso della propria inutilità nel mondo, della mancanza di senso e obiettivi nella propria vita. Woody barcolla, parla poco e non si arrabbia mai, non ha sogni né aspettative: vive con sua moglie, vecchietta lamentosa e senza peli sulla lingua (ma che si rivelerà molto lontana dalla macchietta che sembrava). Un giorno questa vita ordinaria, che pareva vissuta solo in attesa della morte, viene sconvolta da una lettera che comunica a Woody di essere vincitore del jackpot di una lotteria dal valore pari al milione di dollari. Così, nonostante tutti cerchino di scoraggiarlo, Woody s’incaponisce a raggiungere il Nebraska per ritirare i suoi soldi. Dopo vari tentativi falliti sarà suo figlio David ad accompagnarlo in un viaggio per le strade del Midwest. David è ben consapevole che non esista alcuna fortuna da recuperare, che il viaggio sarà vano e irresponsabile, ma comprende l’importanza di recuperare il tempo perduto e di poter conoscere suo padre.

Se la trama appare una summa banale dei temi più cari al regista, Payne riesce a spogliare il suo cinema di furbizie e ruffianerie, con l’unico obiettivo di raccontare una storia semplice, dolce e onesta, qualità sempre più rare nel cinema contemporaneo. Diviene così l’inaspettato cantore delle gioie e dei rimpianti di una vita passata senza rendersene conto. Nebraska si configura come un road-movie atipico, quasi un’opera in dissolvenza, perché non si tratta di un film-viaggio ma piuttosto di un racconto che si ferma, si sospende, smette di guardare la strada per specchiarsi e poi ritrovarsi: il vero viaggio è quello che procede a ritroso fino a esplorare le proprie origini. Se uno degli elementi costitutivi del road-movie è la sosta, in Nebraska la fermata diviene un film nel film: padre e figlio rimarranno per diversi giorni a Hawthorne, cittadina natale di Woody, dove verranno raggiunti dalla moglie e dall’altro figlio. La notizia della fortuna del vecchio, eterno perdente, si diffonderà in giro per la cittadella trasformandolo in quel figliol prodigo invertito che ritorna a casa da (finto) eroe. Ovviamente Woody non sospetta mai che quella fortuna non esista: per lui è un’ossessione, è l’unico motivo per cui valga ancora la pena continuare a vivere. Se poi gli chiedono cosa voglia fare con quei soldi, lui, irresistibilmente, risponde di volersi comprare un furgone nuovo.

Solo allora Nebraska può tornare a perdersi per le strade, a contemplare i punti di passaggio, l’orizzonte e il cielo. Al centro persiste l’idea di movimento, ovvero quella percezione di continuità in grado di plasmare lo spazio trasformandolo in un mondo mobile e in continuo divenire, dove l’unico calcolo possibile è quello dei chilometri percorsi. A questo si contrappone la stasi estrema, soporifera, annichilente dell’America provinciale che non cambia e non ha intenzione di cambiare: è questa l’intuizione più bella di Payne che è capace di costruire un intero film su questo conflitto. Ma non si tratta di un’opera bipolare e dicotomica, di un filmetto programmatico e facilmente schematizzabile, perché il gesto filmico del suo autore è prima di tutto quello della dissolvenza, spesso preferita allo stacco netto: come a dire, in ogni movimento c’è una prospettiva di fermata, in ogni sospensione c’è un progetto, un’idea di cambiamento e rinascita. Lungo la strada l’alba è in grado di svelare l’aurora, il tempo può annullarsi per poter riunire padre e figlio e superare il silenzio di decenni. E alla fine l’impressione è che Woody abbia ancora tutta la vita davanti. Risuonano allora, in un gioco di rimandi filmici, le parole fondamentali di quel giornalista nel finale de L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford: “Quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”. E qualcosa ci dice che Nebraska si collochi perfettamente in quell’America ormai demodé di bugie, inganni e falsi miti, che ancora crede nel sogno, lontana anni luce da qualsiasi operazione postmoderna e dissacrante. Ecco perché Nebraska ha tutto il sapore di un classico istantaneo, in grado di poter riconciliare un intero immaginario. In fin dei conti più che a Bogdanovich forse questo film sarebbe piaciuto proprio a quell’americano burbero ma un po’ bambino che rispondeva al nome di John Ford, quello stesso John Ford che non ha mai smesso di credere nel potere immaginifico dei sogni e del cinema.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 16/08/2014

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