Netflix / Il diavolo sulla soglia
Marvel/Netflix: oltre la dicotomia che scinde cinema e tv si preparano le forme audiovisive del futuro, narrazioni espanse cui corrisponde una fruizione esplosa in schermi e contesti divergenti
Nella tassonomia delle arti il cinema nasce all’interno di una contraddizione ontologica che non ha eguali. Come nel teatro il nome dell’arte è lo stesso del luogo in cui essa si celebra, in un rapporto diretto tra l’oggetto artistico e le coordinate spaziotemporali della sua fruizione, veicolata da determinate modalità tecnologiche e sociali. Come nella musica è un’arte pienamente mercificata grazie alla sua riproducibilità tecnica, che la porta ad essere suscettibile di ripetizioni e moltiplicazioni infinite che limano il concetto di originalità. Una condizione aporetica quindi, alla quale si è aggiunta nel tempo la produzione televisiva di audiovisivo.
Per anni distinguere un oggetto cinematografico da uno televisivo è stata pratica veloce, bastava la definizione di “film tv” a semplificare le cose, mentre un gap tecnologico tra le due produzioni manteneva gli esiti ben distanti tra loro. Le cose iniziarono a complicarsi con l’arrivo degli straight-to-video, spesso film cinematografici da ogni punto di vista tranne quello di non esser riusciti a conquistarsi un passaggio nelle sale.
Dopo un tale scarto, l’esperienza della visione sul grande schermo inizia a perdere il suo carattere costituente all’interno della definizione della natura cinematografica di un oggetto, mentre le piattaforme di riproduzione si preparano ad esplodere e frammentarsi in un pulviscolo infinito di schermi, più o meno grandi, più o meno portatili. In questa situazione si colloca la rivoluzione attuata da quel fenomeno sociale/tecnologico/produttivo ancora in bilico tra seconda e terza golden age della serialità contemporanea, il totale cambio di paradigma che ha portato a riconsiderare nel profondo i rapporti tra cinema e televisione in un’ottica priva di uno scarto gerarchico. A complicare ulteriormente il quadro basta allora una semplice domanda: non solo piattaforma di streaming on-demand ma vera e propria realtà produttiva indipendente, cosa diavolo fa Netflix?
E’ evidente che prodotti come House of Cards e Orange Is the New Black vengono definiti televisione soprattutto per un fattore di comodo, dipendente in larga parte dalla fruizione successiva al service on demand, l’acquisto da parte di Pay tv come Sky e similari. Considerato il destino quasi inevitabile cui va incontro il servizio televisivo – l’abbandono graduale della programmazione a favore dell’accesso diretto on demand, processo cui segue una parallela moltiplicazione delle tecnologie di accesso al servizio – per quanto ancora chiameremo televisione narrazioni seriali prodotte da servizi di streaming, presentate magari ad un festival e fruibili ugualmente su telefoni, schermi portable e pc? Come per il cinema, dal punto di vista ontologico un prodotto televisivo era tale in quanto visualizzato attraverso il mezzo della televisione, ma quando il secondo motore di ricerca più grande del mondo, il cinese Baidu, inizia a produrre film e serie originali che poi distribuisce direttamente tramite i propri canali di streaming, che nome possiamo ancora usare?
Come se volesse rendere il suo cambiamento graduale, Netflix ad oggi ha evitato di realizzare film ma soltanto narrazioni seriali. Tuttavia non è lontano il giorno in cui il nuovo lavoro di un regista di peso passerà direttamente attraverso il suo streaming on demand, magari in parallelo ad una distribuzione cinematografica campionata. In questo panorama è facile immaginare come la sala potrà sopravvivere solo grazie all’aspetto più esperienziale e sensoriale del cinema, mentre altri tipi di narrazione impareranno mano a mano a farne a meno (del resto le opere fluviali di Lav Diaz non sono evidentemente ragionate per una distribuzione cinematografica reale). Oltre questo scisma, miniserie autoriali come Top of The Lake e Olive Kitteridge ci mostrano poi altre forme di un probabile futuro, un chiasmo di cinema e televisione capace di nascere e riprodursi attraverso diverse strutture produttive e distributive. A questo punto, dal punto di vista ontologico, avrà ancora senso parlare di cinema e televisione, o dovremo semplicemente fare riferimento alle categorie di film e serie?
Il quesito ci permette di passare per un aspetto apparentemente ovvio ma foriero di conseguenze: la trasformazione in atto e i futuri assestamenti della produzione e ricezione audiovisiva corrispondono e dipendono dal nascere di una nuova estetica e poetica seriale, quello scarto ben noto che da quasi vent’anni riguarda ogni lato del fenomeno (produttivo, sociale, estetico, distributivo) e al cui successo si deve un flusso di influenze reciproche tra cinema e televisione.
E’ evidente del resto come la logica del remake/reboot/sequel sia soltanto la formula di comodo adottata da Hollywood per abbracciare la serialità, in un modo ben più profondo di quanto facesse ad esempio lo slasher degli anni 80. Senza dimenticare come il concetto di serie faccia parte del cinema fin dalla sua nascita (Les Vampires di Louis Feuillade, dieci episodi realizzati nel 1915 figli di una logica seriale nata con il romanzo d’appendice), possiamo notare come anche il mondo videoludico, da sempre costruito da saghe, faccia della narrazione seriale la sua cifra essenziale. Brand come Assassin’s Creed e Splinter Cell sono ragionati in termini seriali, senza contare come la narrazione degli ultimi episodi di GTA non abbia nulla da invidiare alle storie raccontate dagli altri medium.
La conseguenza più macroscopica e determinante e chiarificatrice di questo momento storico è l’acquisizione da parte del cinema hollywoodiano del concetto di continuity, escamotage mutuato dalla logica del fumetto che ha permesso all’industria cinematografica americana di attraversare indenne un decennio di crisi economica. Quanto realizzato dalla Marvel Studios infatti va oltre la logica dell’ennesima trilogia, e supera persino la totale inter e iper-medialità raggiunta negli anni dal mondo di Star Wars. Il blockbuster post-Lucas ha acquisito da tempo la capacità di moltiplicarsi su più piattaforme per un merchandising espanso e pervasivo; l’acquisizione della continuity fumettistica è allora il corollario ideale e perfetto di questa mercificazione, non a caso accomunata oggi dalla stessa matrice Disney.
Come si diceva il rapporto tra cinema e televisione è oggi un moltiplicarsi di influenze reciproche. In questo flusso non c’è da stupirsi allora di come sia proprio Netflix al centro di quell’accordo storico con la Marvel atto a realizzare quattro serie dedicate ai Difensori di New York (Daredevil, Jessica Jones, Pugno d’acciaio e Luke Cage), più una quinta che farà da totale crossover. Il tutto ovviamente all’interno del MCU, Marvel Cinematic Universe, quell’universo narrativo condiviso dai film della Marvel Studios e da Marvel’s Agents of S.H.I.E.L.D – con relativo spin-off Agent Carter.
Ma attenzione, anche qui non cadiamo nel trucco dell’acqua calda e ricordiamoci di come spesso ciò che ci appare inedito in realtà possa avere radici antiche. In questo caso, in relazione al rapporto tra narrazione cinematografica e televisiva con conseguente condivisione di cast e strutture produttive, basti pensare alla lunga serie di film di Star Trek, facile esempio di un legame che tutto è meno che inedito. Allo stesso tempo anche la logica dello spin-off e dell’universo condiviso tra serie diverse non è cosa nuova, e in materia supereroistica la rete broadcast The CW sta applicando tale prassi con molta consapevolezza alle sue Arrow e The Flash – cui si aggiungeranno presto Legends of Tomorrow e altro ancora.
A questo punto è lecito chiedersi cosa sia a rendere così rivoluzionario l’accordo Netflix/Marvel, e la risposta sta anzitutto in quel coacervo di cambiamenti analizzati fino ad ora, le cui convergenze sono state tutte puntualmente verificate e sfruttare dalla prima notevolissima stagione di Daredevil. Noir metropolitano allucinato, capace di alternare esplosioni di colore espressionista ad un iperrealismo plastico dei corpi, il Diavolo di Hell’s Kitchen rappresenta uno dei risultati più maturi dell’incontro di logiche cinematografiche e televisive, con un ruolo preponderante acquisito dalla regia che ha pochi eguali nel panorama seriale (True Detective, Hannibal, The Knick e poco altro).
Ad un impianto visivo così significante e profondamente radicato nell’identità del proprio personaggio, Daredevil ha saputo affiancare una scrittura che a parte pochi inciampi è riuscita in un’impresa difficilissima: raccontare un nuovo racconto di formazione che fosse però capace di trascendere il suo eroe per mostrare il farsi di tutto il suo universo narrativo. A conti fatti la creatura on demand di Netflix segna davvero la vetta della rappresentazione supereroistica seriale, e uno dei risultati più significativi in senso generale. Senza dimenticare poi che sarà la sede di incontri di diversi piani narrativi, una prosecuzione della strada aperta da Marvel’s Agents of S.H.I.E.L.D applicata ad una maturità linguistica e poetica impensabile per la serie targata ABC.
A questo livello di compenetrazione non serve più neanche il cameo di Samuel L. Jackson nei panni di Nick Fury per legittimare la connessione filiale, siamo ormai totalmente dentro una continuity che si manifesta con estrema naturalezza e coerenza nei vari medium, una narrazione espansa cui corrisponde una fruizione altrettanto esplosa, vissuta dal cinema al cellulare allo schermo del pc, e all’interno della quale stanno forse prendendo forma le modalità narrative del prossimo futuro.